Minerva oscura. Giovanni Pascoli

Minerva oscura - Giovanni  Pascoli


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luogo oscurissimo è dal VII al IX dell’inferno. E l’ora del tempo è mezzanotte. È mezzanotte quando il Poeta scende con Virgilio ‛a maggior pieta’, mentre era vespro quando si ‛apparecchiava a sostener la guerra Sì del cammino e sì della pietate’. Cadono le stelle e persuadono il sonno: è l’ora che Enea, con voce che noi sentiamo risonare nei versi di Virgilio, grave e quasi velata, si fa a narrare l’ultima notte di Troia. E Dante che già nella sera, nel silenzio e sopore universale, si sentiva solo a vegliare di tutti i viventi, ora a mezzanotte pare oppresso da un sogno sognato per tutto il durare d’un viaggio notturno. E il viaggio pare uno di quelli che possiamo ricordare d’aver fatti da fanciulli (Dante è come un fanciullo vicino a Virgilio), un poco a piedi, poi portati di peso in carrozza, poi discesi senza averne coscienza intera, balzati di qua e di là, tra cigolii e schiocchi e scricchiolii e tonfi, con qualche carezzevole parola mormorata all’orecchio in mezzo a un rotolare continuamente e sordamente fragoroso. L’Ombra e il Vivente scendono accompagnati dal gorgoglio assiduo di un fossato di acqua buia, e questo fossato si fa palude, la palude della ‛Tristizia’, in fondo alla piaggia. E la palude è piena di strepito d’anime che rissano tra loro e di scoppi di bolle che vengono da altre anime fitte nel fango. Essi girano per un grande arco del margine e si trovano avanti una torre. La torre accenna con due fiamme sulla cima, e un’altra di lontano rende il cenno. Una barca s’appressa nel buio, e il barcaiuolo grida sinistramente. Entrano, vanno. A Dante apparisce, pieno di fango, il nemico morto che non riconosce lui e forse vuol salire nella sua barca; ma è da lui riconosciuto e respinto. Una scena infernale di odio e di sdegno e di giusta vendetta e di rabbia impotente e di battaglia tra morti, tramezza il viaggio della mezzanotte. Il vocio dei dannati s’allontana; ed ecco avanti avanti un immenso lamento, in fondo in fondo un rosseggiare di fuoco: è una città di ferro incandescente, Dite, il vero Inferno. Sbarcano, e per la prima volta Dante vede i ‛da’ ciel piovuti’; per la prima volta è lasciato solo; per la prima volta vede il Maestro, con gli occhi alla terra, dubitare e sospirare, l’ode parlare con parole tronche e raccontare una tetra storia di scongiuri e di luoghi fondi e bui. Lo interrompe l’apparizione delle Furie, viene in volta il Gorgon, e Virgilio chiude gli occhi a Dante con le sue mani. Quando egli è così senza vista, sente come l’appressare di un temporale. Viene il liberatore, un Messo del cielo che con una verghetta apre le porte di ferro. È il risveglio, finalmente: e Dante si trova in un cimitero con gli avelli scoperchiati, donde escono fiamme. Tra il sommo del pericolo, quando sulla cima della torre rovente si mostra il Gorgon, e il risveglio, è un ammonimento agli intelletti sani che sembra un lampo il quale aprendo a un tratto le tenebre, le lascia più nere e inerti che mai. Or qui, più che in ogni altro luogo e momento, è dubbio e oscurità. Stige, torri, Flegias, parole di Virgilio, Furie, Gorgon, Messo: tutto mistero. Ma nello Stige, che cinge la città dolente, ‛il fummo è più acerbo’.

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      Io pensava:

      La sua Comedia volle Dante che parlasse ‛faticosa e forte’; e certo egli credeva, come e più che per la canzone “Voi che, intendendo„, che radi avessero a essere coloro che intendessero bene sua ragione, pago che la bellezza ne fosse veduta, se la bontà meno ne era sentita.[1] Certo egli avverte nel poema stesso e di nascondere la dottrina sotto il velo dei versi e di volere ben forniti di dottrina i suoi lettori; d’essere cioè forte od oscuro, e faticoso o duro. Avanti le porte di Dite, quando le feroci Erine domandano il Gorgon e il Maestro chiude gli occhi a Dante, questi interrompe il racconto, che séguita col fracasso sonante per le torbide onde, dicendo al lettore:

      O voi, che avete gl’intelletti sani,

      Mirate la dottrina che s’asconde

      Sotto il velame degli versi strani.[2]

      Così nella valletta dei fiori, finito l’inno della Compieta, prima di narrare lo scendere dei due angeli e il venire del serpente, si volge pure al lettore:

      Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,

      Chè il velo è ora ben tanto sottile,

      Certo, che il trapassar dentro è leggiero.[3]

      Il velo è della lettera, è la sentenza letterale, il di fuori, e il vero è quello che si nasconde sotto il manto di quella favola: il di dentro, una verità, come egli dice, ascosa sotto bella menzogna.[4] Il velo qui è sottile, il vero dunque facilmente trasparisce: perchè l’invito ad aguzzare gli occhi? Per comprendere la cosa, bisogna rileggere nel Convivio il perchè, quale egli lo espone, della ‛fortezza’ o ‛gravezza’ non solo delle canzoni, ma ‛dello scritto che quasi Comento dire si può’, che ordinato a levare il difetto della durezza in esse, è ‛in parte un poco duro’.[5] Dante scrive che per l’esilio e per il vento secco che vapora la dolorosa povertà, la quale ne fu l’effetto, essendo vile apparito agli occhi a molti, e non solo nella persona sua ma in ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare, gli conveniva con più alto stile dare nel Convito un poco di gravezza, per la quale paresse di maggiore autorità.[6] Or, senza voler prendere alla lettera il divino autore della Comedia, bisogna pur credere che sì con l’allegorizzare, sì con la copia della dottrina e la sottilità dei ragionamenti, egli si proponesse più di essere alto che chiaro, secreto più che accessibile, autorevole più che persuasivo. Certo restringendo il discorso all’allegoria, facilmente si può vedere che se essa fu da Gesù adoperata nella forma di parabola per fare meglio intendere la sua divina parola, da altri fu usata, o per timore dei potenti al fine di schivare la loro vendetta, o per isfoggio d’arte, al fine di colpire d’ammirazione gli uditori. Nei quali casi, non si persegue dall’allegorizzatore il pregio della chiarezza, per la quale il suo pensiero sia aperto a tutti, ma il vanto dell’ingegnosità, con la quale o celi in parte il vero, sì che a questi sia manifestissimo, a quelli occultissimo, o a tutti lo ricopra, sì che bisogni a tutti affaticarsi per trapassar dentro. Or quando il Poeta ammonisce il lettore di aguzzar ben gli occhi al vero, egli, in certo modo, lo sfida, lo mette alla prova indicandogli un velo sottile attraverso il quale si può vedere da tutti, eppure non è detto che da tutti si veda; se ciò avviene d’un velo ben tanto sottile, che sarà dei velami più fitti e dei versi più strani?

       Indice

      Con tali parole adunque Dante ci ammonisce della ‛fortezza’ della sua Comedia, per l’allegoria che ne copre la sentenza; con altre ci ricorda la sua difficoltà, per la dottrina che è necessaria a intenderla:

      O voi che siete in piccioletta barca

      Desiderosi d’ascoltar, seguiti

      Dietro al mio legno che cantando varca,

      Tornate a riveder li vostri liti,

      Non vi mettete in pelago; chè forse

      Perdendo me, rimarreste smarriti

      L’acqua ch’io prendo, giammai non si corse:

      Minerva spira e conducemi Apollo

      E nove Muse mi dimostran l’Orse.

      Voi altri pochi, che drizzaste il collo

      Per tempo al pan degli Angeli, del quale

      Vivesi qui, ma non sen vien satollo,

      Metter potete ben per l’alto sale

      Vostro navigio, servando mio solco

      Dinanzi all’acqua che ritorna eguale.[7]

      Il pelago o alto sale è la terza Cantica; la barca piccioletta che ai desiderosi d’ascoltare poteva bastare nelle altre due parti del Poema, più non basta. Certo, dottrina occorreva anche allora, ma ora più assai: allora bastava ascoltare e capire, ora bisogna avere dottrina anche di suo, per non rimanere smarriti quando si perdesse un poco di vista il legno del Poeta, e di udito la sua musica voce. Se ne ricava che la difficoltà della terza Cantica è non solo più forte delle altre due, ma di genere differente:


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