Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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Chiusura di mese e di conti. Le Tessili?»

      «Quelle sono in ripresa!»

      «E tu?…»

      «E io?… Ho gli Acciai»

      «Che crollano.»

      «Come lo sai?»

      «Lo vedo scritto sul tuo volto.»

      «Sì, crollano. È inspiegabile, ma è così. Attraverso un momento atroce, De Vincenzi. Hai detto: fino al collo?… Di più… di più…»

      Si alzò e fece qualche passo per la stanza angusta. Si muoveva come un automa.

      De Vincenzi lo guardava e non avrebbe saputo dire a se stesso, se in quel momento era maggiore in lui l’apprensione per la sorte dell’amico o il desiderio freddo e spietato di guardargli sino in fondo al cervello, di scoprirne il segreto nascosto.

      «Via!… Tu sei un bel giocatore! Fin dal collegio, lo eri. Resisterai… Ti rifarai…»

      Allora, Aurigi parlò in fretta, come per liberarsi con uno sfogo improvviso.

      «No! Non posso resistere! Questa volta non posso più. Già il mese scorso era grave. Dovetti dar fondo a tutte le risorse. Se ti dico la cifra, non la credi. Questo mese dovevo rifarmi e ho giocato tutto. Ho lasciate le Tessili e ho preso gli Acciai… Più che potevo… Come un forsennato o come un chiaroveggente, che è poi la stessa cosa!… Tu non puoi capirmi!»

      «Ti capisco. Continua.»

      Aurigi s’irrigidì.

      «Perché? Perché mi fai parlare?»

      «Non sei venuto qui, da me, per questo?»

      «Per raccontare a te la mia rovina?!… Sei pazzo! A che scopo? Puoi darmi mezzo milione, tu? Ah! Ah!»

      Rideva. Era chiaro che non poteva trattenersi dal ridere, a quell’idea.

      «Puoi darmi mezzo milione?» ripeté.

      «No, evidentemente io non posso darti quella somma… Ma il conte Marchionni…»

      Giannetto si fermò e guardò De Vincenzi ad occhi spalancati, come se non capisse.

      «Marchionni?»

      «Naturalmente… Non deve essere tuo suocero? Quando ti sposi? Non è ricchissimo, Marchionni?»

      L’altro alzò le spalle violentemente e riprese a passeggiare.

      D’un tratto si fermò.

      «De Vincenzi, tu mi hai fatto parlare e io non ne avevo voglia. Sono venuto da te, per non pensare. Due ore, hai detto? Sarà benissimo. Ma, se mi chiedi dove son andato per due ore, tra la nebbia, non lo so. Ho camminato. Ad un tratto mi son trovato in Galleria… E sono venuto qui, da te…»

      Sarcastico, De Vincenzi lanciò:

      «In Questura!»

      «Ma sì: da te, non in Questura. Era un diversivo. Tu potevi avere un bel delitto da raccontarmi. E un bel delitto, mio caro, mi avrebbe dato il mezzo di non pensare alla mia rovina.»

      De Vincenzi fece appena in tempo a dirsi che l’accento e l’aspetto di Aurigi erano paurosamente sinistri, quando il telefono nero, sul tavolo, squillò a tre riprese rabbiose, laceranti come tre gridi disperati.

      R

      «Pronto!»

      De Vincenzi era andato a sedersi al tavolo ed aveva afferrato il ricevitore. Aurigi gli voltava le spalle e fissava il calendario.

      «Sì, squadra mobile… Sono io… Ciao, Maccari… Di pure… No, aspetta…»

      Prese una matita e tirò a sé sul tavolo un blocco di carta.

      «Dimmi ora, chè scrivo… Bene… Monforte… quaran…»

      La voce s’interruppe e De Vincenzi continuò a scrivere in silenzio. Aveva represso a fatica un sussulto e il suo sguardo era corso rapido e terrorizzato a Giannetto, che gli voltava sempre le spalle. Poi aveva riabbassato il capo sul foglio di carta. Per un momento era stato come se un gran vuoto gli si fosse fatto nel cervello; ma aveva subito vinto lo smarrimento e, quando tornò a parlare dentro il cornetto, la sua voce suonò calma e indifferente.

      «Va bene… Ho capito benissimo il numero… e anche il nome… È morto?… Capisco… Tu mi aspetti, naturalmente… Vengo subito… Porterò gli agenti che ho sottomano; ma preparati a lasciarmene qualcuno dei tuoi… Ciao.»

      Lentamente, riappese il ricevitore. Aveva lo sguardo duro e la mascella contratta.

      «Che c’è?…» chiese Giannetto, voltandosi. Vide il volto dell’amico e ripetè quasi con paura:

      «Che è successo?»

      «Niente!… Affari… d’ordinaria amministrazione. Volevi un bel delitto, eh!»

      Premette il bottone del campanello e fissò ancora Aurigi:

      «Perché, proprio stanotte volevi un bel delitto, tu?»

      «Io?… Ma che hai, De Vincenzi?»

      «Sei sicuro d’aver passeggiato per due ore?»

      «Ma sì. Te l’ho detto. E che c’entra, adesso?»

      Basso, tarchiato, un torso quadro e muscoloso su due gambe troppo corte, il brigadiere Cruni era comparso sulla soglia.

      «Ha chiamato me, cavaliere?»

      «Sì. Tu e tre agenti. Un tassì. Subito.»

      Cruni chinò il busto in avanti con una specie di inchino, che era saluto e risposta e fece per andare. Il commissario gli gridò dietro:

      «Mandami Paoli!»

      Poi rapidamente prese il pastrano e lo indossò.

      «Esci?» fece Aurigi. «Vengo con te…»

      «No. Non puoi. Aspettami qui.»

      «Perché vuoi che ti aspetti qui? Sono quasi le tre. Me ne vado a casa.»

      Per quanto padrone di sé e oramai deliberato a non vedere nell’amico d’infanzia che un «caso» interessante la sua ragione e il suo dovere, De Vincenzi trasalì visibilmente.

      Quasi inconsciamente ripeté:

      «A casa? A casa tua

      Aurigi lo guardò sorpreso.

      «Ma sì. Oh! dove vuoi che vada? Ma che hai, Carlo? Impazzisci?»

      «Ti sembra?»

      Stava per fermarsi e mettersi ad interrogarlo. Poteva essere un mezzo. Ma subito ci rinunciò e fu con voce fredda che disse:

      «No, non andartene. Aspettami qui. Te ne prego. Avrò qualcosa da raccontarti, al ritorno.»

      L’altro alzò le spalle.

      «Come vuoi! Infatti, perché dovrei andarmene a casa?…»

      Sorrideva. Sedette.

      L’agente Paoli comparve nel quadro della porta.

      «Son qui, cavaliere.»

      De Vincenzi si mise il cappello, fece un segno di saluto ad Aurigi e raggiunse rapido la porta. Paoli si trasse da parte. Il commissario gli sussurrò brevemente un ordine e sparì.

      L’agente aveva trasalito e adesso fissava con curiosità professionale l’uomo in frak, che, seduto tranquillamente, tamburellava con le dita sul tavolo del commissario.

      «Mi fate compagnia?»

      «Se non la disturbo…»

      L’accento


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