Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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chirurgici che lucevano e due informi pallottole di piombo. Si udirono voci nella stanza di Sani.

      De Vincenzi disse: «Falli venire».

      Due persone entrarono.

      «Chiudi la porta, per favore».

      Sani la chiuse.

      «Seggano».

      C’erano soltanto due seggiole e si trovavano davanti al tavolo, nel cerchio della luce. Il dottor Verga e Patt Drury sedettero.

      Il commissario mormorò: «Mi scusino» e abbassò dalla sua parte il paralume verde della lampada.

      La luce si sparse verso il centro della stanza e illuminò i due giovani.

      Patt Drury batté le ciglia e fece una piccola smorfia con le labbra troppo rosse. Il volto livido e contratto del dottore si mantenne immobile.

      «Siamo venuti» disse Patt. «Forse lei non lo credeva…».

      «Ne ero certo, anzi. Non temevo la loro fuga».

      «E che cosa, allora?».

      Il commissario fece un gesto. La giovane strinse le labbra con disdegno.

      «Lo ha mal giudicato! Non lo avrei amato, altrimenti».

      «Infatti…».

      Toccò i ferri. Prese una pallottola fra l’indice e il medio della destra. Faceva quei movimenti macchinalmente. Il dottore fissava i ferri.

      Pesò un silenzio troppo lungo per tutti. Anche De Vincenzi ne soffriva. Era preparato all’interrogatorio; ma si diceva adesso che quella messa in iscena un po’ teatrale, quella tensione, che egli stesso inconsapevolmente aveva creata, non poteva dar frutto. La scena doveva apparir preparata e lui non voleva, che in quei due si sarebbe destata la diffidenza, mentre egli non sperava che in un loro scatto di sincerità. Invece, in quel momento, lì dentro, se i nervi avessero ceduto, un unico abbandono era possibile: il crollo disperato, il pianto spasmodico, oppure l’urlo da ossessi. E, se i nervi resistevano, perché preparati o perché bene vigilati dal cervello cosciente del pericolo, nulla più c’era da sperare.

      Si scosse. Gli altri due sussultarono.

      «Parliamo un poco da buoni amici» disse e tolse il cornetto dalla scatola del telefono. «Così non ci disturberà nessuno».

      «Anche Edoardo ha qualcosa da dirle. Ma bisogna che lei gli creda».

      La ragazza parlava pacatamente con quel suo accento strano, che dava alle parole proferite una contrazione dura, come se fossero schiacciate dai denti. Ma aveva perduto ogni sarcasmo e nelle sue pupille non volteggiavano più pagliuzze d’oro.

      «Gli crederò» affermò De Vincenzi.

      Il dottore taceva sempre e fissava gli strumenti d’acciaio, come ipnotizzato. Il commissario li trasse da parte.

      «Che ha da dirmi?».

      «Sì» pronunziò il giovane e s’interruppe.

      «Dove è stato la notte scorsa dalle undici in poi?».

      «Perché dalle undici?».

      «Immaginavo anche questo. Allora, non è vero neppure che accompagnò miss Drury a casa sua?».

      «Non lo avrei lasciato solo!» esclamò la ragazza e De Vincenzi annuì col capo.

      «Quando uscimmo dal Sempioncino» cominciò finalmente il dottor Verga «eravamo tutti e due sconvolti. La scena col professore era stata più violenta di quanto io stesso avessi preveduto. Mi ero recato laggiù con l’intenzione di parlargli fermamente, ma serenamente. Quel che faceva non era degno di nessuno di noi due, perché il professore sapeva che io amo profondamente Patt. Per lui, invece, si trattava di un capriccio… Non era in giuoco che il suo amor proprio di uomo!… Per la prima volta una donna gli resisteva… Ma poi, quando mi trovai davanti a lui… e lo vidi sorridere sarcasticamente… e vidi che tentava di afferrare Patt, per allontanarla da me… Perdetti il controllo di me stesso e lo colpii!… Lo avrei anche ucciso in quel momento, se avessi posseduto un’arma… Ma avevo lasciato a casa la rivoltella, perché la ragione mi aveva assistito… Così, quando uscimmo, eravamo tutti e due sconvolti… Girammo un po’ per quelle strade deserte, senza parlare. Patt s’era attaccata al mio braccio e mi si stringeva contro… Arrivammo fino all’imboccatura dell’autostrada di Como e avremmo proseguito, se i guardiani non ci avessero fermati, tanto eravamo inconsapevoli di noi stessi e dei luoghi. Io temevo per Patt, più che per me stesso. Il professore non era uomo da perdonare. Oppure avrebbe perdonato nell’unico caso che avesse raggiunto il suo scopo. E questo…».

      Il giovanotto fece un gesto e gli occhi gli brillarono. La ragazza gli posò una mano sul ginocchio e subito la ritrasse.

      «Lo so, cara!» le mormorò lui, poi si volse di nuovo al commissario. «L’intervento dei guardiani dell’autostrada, interrompendo la nostra tensione, ci aveva fatto ritrovare un po’ la padronanza di noi stessi. Patt si mise a ridere. “Se andassimo a cena?” mi disse. “Ho una fame da lupo!”. Prendemmo un tassì e ci facemmo portare al Savini. Avevamo bisogno di movimento attorno a noi. Di un luogo che ci distraesse. Dopo aver mangiato, eravamo più calmi. Uscimmo e passeggiammo per la Galleria. Patt mi disse: «Vedrai che capirà lui stesso d’avere avuto torto. Quel che è accaduto è molto spiacevole, ma lo indurrà a lasciarmi tranquilla. Domattina, se è un uomo di spirito, farà mostra di nulla». Io non lo credevo. M’ero reso perfettamente conto di aver creato l’irreparabile, col mio atto. Egli mi avrebbe cacciato. Per me voleva dire la miseria. Oltre a essere il suo assistente, io sono anche interno all’ospedale, e lui avrebbe potuto farmi licenziare. Patt lo sapeva e per quanto tentasse di rassicurarmi, era preoccupata anche lei. «Se tu gli facessi le scuse?». M’insinuò e io sentii dal tremore della voce quanto grande fosse la sua preoccupazione. «Sono pronto a fargliele» le dissi subito. «Ma domani mattina sarà troppo tardi». Allora, lei mi consigliò di andare ad aspettare il professore davanti a casa sua. Era circa mezzanotte e lui non rincasava mai prima della una o delle due. Acconsentii. Non avevo alcuna falsa vergogna di andargli a parlare da uomo a uomo, con sincerità, con rispetto, seppure con fermezza. Avrei tentato di fargli capire che per me Patt è tutta la vita…».

      Tacque un istante. De Vincenzi lo fissava. Quell’amore confessato così tranquillamente, con tanta semplicità, lo turbava. Ancora era una delle poche religioni nelle quali egli credesse, la religione dell’amore.

      «E poi?» chiese, anche per vincere il proprio turbamento.

      «Io volevo andar solo. Patt volle accompagnarmi. «Ma non deve vederti!» le osservai. «Davanti a te non confesserà mai d’avere avuto torto». «Ci metteremo dall’altra parte del viale. Quando lo vedremo venire, io mi nasconderò dietro un albero e tu lo avvicinerai. Sono troppo ansiosa di conoscere l’esito del tentativo, per lasciarti andar solo». Non seppi dirle di no. Ci recammo sul viale Bianca Maria e aspettammo. Il tempo scorreva lentamente. Sentimmo l’orologio della chiesa di via Conservatorio battere i quarti. Alle tre non lo avevamo veduto… Alle quattro, neppure… Erano le cinque, quando ci decidemmo ad andarcene, dicendoci che non sarebbe tornato a casa, per quella notte. Accompagnai Patt in via Boccaccio, promettendole di andare a coricarmi. Invece, non potei. Il caffè della stazione Nord era aperto… Vi entrai e vi rimasi fino all’ora di andare all’ospedale… «Questo è tutto!». «È sicuro di non aver veduto il professore tornare a casa?».

      Il dottore esitò. Guardò la sua compagna. Fu l’americana a rispondere: «Verso la una e mezzo distinguemmo due uomini che venivano da via Corridoni. Uno di essi ci sembrò il professore. Edoardo mi disse: «Come faccio ad avvicinarlo, che non è solo? Ma poi a un tratto, dopo aver fatto pochi passi sul viale, i due uomini si volsero e tornarono indietro, ridiscendendo via Corridoni… Pensammo perciò d’esserci sbagliati…».

      De Vincenzi aveva avuto un piccolo sussulto. Leggerissimamente le mani gli tremavano.

      «Pensi bene, miss Patt! A parlarne adesso, dopo ventiquattr’ore circa, le sembra che uno di quei due uomini


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