Due amori. Farina Salvatore

Due amori - Farina Salvatore


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il primo avesse frugato nel forziere della camerata; minacciavami il digiuno e la chiusura se non lo palesassi.

      Compresi che la stessa domanda era stata fatta a Raimondo, e involontariamente mi rivolsi a lui. Incontrai i suoi sguardi fissi nei miei, e parvemi di scorgervi il timore che io avrei palesato per sfuggire al castigo. Ma ciò non era nel mio cuore, e se pure vi fosse stato, quello sguardo mi avrebbe dato forza per vincere la codardia.

      Risposi essermi trovato anch'io nella camerata; avere per conseguenza cognizione del fatto e del suo autore; ma non volere per nissun conto denunziare chicchessia.

      Gli occhi di Don Giuseppe schizzarono fiamme; Raimondo li teneva come prima abbassati al suolo.

      Se non che all'improvviso Eugenio S... entrò in quella camera. Era egli uno scapestratello, sempre allegro, sempre pronto ai colpi di mano, ai chiassi; e perciò Raimondo ed io avevamo avuto poco a fare con lui.

      Don Giuseppe gli domandò imperiosamente che cosa venisse a fare senza essere chiamato. Rispose con accento fermo essere venuto ad indicare il nome di colui che aveva commesso il furto del giorno antecedente.

      Raimondo ed io ci guardammo sorpresi. Sapevamo entrambi che egli stesso n'era stato l'autore, e stentavamo a dar fede a tanta codardia.

      Nessuno di noi aveva in pratica il cuore d'Eugenio S...; però temevamo ch'egli venisse per riversare sovr'altri la propria colpa, non potendo immaginare che avesse intenzione di abbandonarsi all'ira di Don Giuseppe.

      Ma il nostro stupore fu tanto più grande, quando udimmo quel giovinetto palesare coll'impudenza della sua età la sua colpa, ed implorare con aria di canzonatura il perdono del sorvegliante.

      Quell'atto lo riabilitò ai nostri occhi. Compresi che Raimondo aveva concepito per lui in quell'istante una grandissima stima--nè io ne fui geloso, lusingandomi di poterla dividere.

      Fummo posti tutti tre nel camerino di riflessione; e per tre giorni tenuti al semplice regime di pane ed acqua.

      Non appena ci trovammo soli, l'irresistibile tendenza d'espansione che la natura ha chiuso nel petto degli uomini ruppe la giovane barriera che la chiudeva.

      E ci vennero sulle labbra i nostri sentimenti, le nostre idee, i nostri propositi.

      A quell'età non si hanno segreti; si recita la parte colla maschera nelle mani; si mostra il viso aperto, e nel viso l'anima.

      Un'ora dopo noi eravamo vecchi amici. Ciascuno di noi conosceva il passato dell'altro. Quale passato, mio Dio? Una breve ora di vita volata fra i turbini del desiderio--un petalo di rosa che la nostra mano avea strappato e che il vento recava sulle sue ali.--Nessuno di noi si sarebbe certamente arrestato nel suo cammino per rivolgersi un istante a contemplarne la fuga, se il timore che alcuna parte di noi rimanesse celata ai nuovi amici non ci avesse spinto a farlo in quel giorno; perocchè non si pensa allora che verrà tempo in cui si tenterà a gran fatica ricostruire tutta la tela della nostra vita, e che quegli anni infantili così rapidamente fuggiti saranno i soli su cui vorremo arrestarci con compiacenza.

      Il dolore e la colpa fanno la giornata dell'uomo, e il rimorso ne accompagna il tramonto; la vita ha un solo raggio di luce che le passioni non han deturpato--l'infanzia.

      Raimondo per lo addietro così taciturno ci avea rivelato una folla di progetti; pareva ch'egli uscisse con voluttà da quella sua abituale riservatezza.

      Eugenio teneva pronte le sue celie per ogni cosa. Era riuscito a trafugare alcune nocciuole prevedendo che gli sarebbe toccato il pane ed acqua, e rovesciò le tasche sul nostro desco.

      Così fra i motteggi e le confidenze passarono quei tre giorni.

      D'allora in poi fummo indivisibili.

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      Dodici anni appresso io mi trovava a Milano. Il collegiale s'era fatto uomo; e tuttavia io ripensava con mestizia a quei giorni di delirio. Da gran tempo non aveva saputo più novelle di Raimondo. Egli era partito per un lungo viaggio otto anni prima, quando, rimasto solo per la morte d'un vecchio zio che avealo educato, eragli nata vaghezza di veder cose nuove. L'ultima sua lettera recava l'impronta d'una melanconia profonda, inguaribile. Dicevami come egli viaggiasse in compagnia d'un indiano e come andasse mendicando la pace di borgo in borgo, e non sapesse risolversi a far ritorno in Europa.

      Trovavasi allora a San Cosmo, borgata del Paraguay, e colà avrei io voluto rispondergli e pagargli tributo di conforti, se la sua vita nomade non m'avesse tolto ogni speranza di fargli pervenire la mia lettera.

      Così erano passati due anni. Un mattino del 18.... udii picchiare all'uscio della mia cameretta in un modo noto.

      --Venite innanzi, Simplicio, gridai dal mio letto appuntando i gomiti sul guanciale.

      Il vecchio portinajo entrò e mi porse una lettera; il cuore mi battè frequente; io aveva riconosciuto i caratteri di Raimondo.

      Dicevami un mondo di cose--tutte meste; ma ciò che mi riconfortava era la promessa del suo ritorno in Italia. Sarebbe partito da Maldonado a bordo del bastimento francese La vitesse, contando di toccare Livorno due mesi dopo.

      Immaginate la mia gioja. A calcoli fatti egli non doveva trovarsi a gran distanza da me, e al più tardi fra otto giorni io sperava di riabbraciare l'ottimo amico dell'infanzia.

      Le mie speranze non andarono fallite; cinque giorni dopo io riceveva da Livorno avviso del suo arrivo; e il domani egli era meco.

       Indice

      Egli era meco. Ma posso io dire che egli fosse ancora quel Raimondo d'una volta, il collegiale taciturno e severo, ma ad ora ad ora confidente ed entusiasta? Io cercavo indarno sotto la sua nera barba le note linee di quel volto pallido ed affilato--il suo sguardo era sempre mesto, ma avea perduto quel fuoco che irraggiava a sprazzi vivissimi di luce la sua testa. Ov'erano quelle espansioni ingenue d'una volta, e quel tenero e soave raccoglimento alle speranze?

      --Quanto siamo mutati! mi disse egli un giorno fissandomi in volto impensierito.

      --Tu più di me, gli risposi.

      --Lo credi. Ma provati a rimontare la corrente degli anni e non t'incresca di rovistare nelle ceneri di quello che fu già di te medesimo.

      --Ho paura di farlo.

      --Hai ragione, le sono ubbie. Il tempo fa il suo mestiere. Oggi abbiamo i peli sul mento; fra una ventina d'anni saremo canuti--ed ecco la vita.

      --L'anima sola non muta, aggiunsi tocco melanconicamente dalle sue parole.

      --L'anima!.... ripetè distratto. Tu ci credi....

      Fui atterrito da questo dubbio.

      --Ma che cosa dunque è avvenuto dentro di te? Qual terribile urto ha spezzato la tua fede così salda?

      --La mia fede! So d'averne avuto una. V'è un'età nella vita in cui si è fanciulli; allora è un bisogno; si guarda il cielo, si vedono le stelle, si respira il profumo dei fiori, si è ignari del resto, e si crede.

      Quel giorno non parlammo più oltre.

      Quando fui solo, ricordando Raimondo e i nostri anni di collegio, fui tratto a pensare ad Eugenio. Egli si era recato da qualche anno a Roma per perfezionarsi nell'arte del disegno, e vi aveva fama di buon pittore. Gli scrissi una lunga lettera e gli palesai, come la fantasia me lo raffigurava, lo stato dell'anima di Raimondo, i suoi dubbii, le sue ansie. Ma non osai dirgli come io lo credessi tanto mutato da essere fatto insensibile all'affetto; non osai dirgli, e non osavo dirlo a me stesso, come io riputassi affievolita d'assai nel suo cuore quell'amicizia che già ne aveva uniti così teneramente.


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