Arrigo il savio. Barrili Anton Giulio

Arrigo il savio - Barrili Anton Giulio


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gli era andato incontro con molta premura.

      – Conte, – diss'egli, – che fortuna è questa per me!

      – Caro Valenti, – rispose quell'altro, con una vocina di chioccia infreddata e smozzicando l'erre, – dite il piacere di venire a vedervi. Ci trascurate un pochino, sapete? Speravo di vedervi a cavallo, quest'oggi, ma voi vi siete rintanato in casa, mio bel tenebroso! Perciò sono venuto a scovarvi, e devo a questa amichevole risoluzione la vista di un piedino meraviglioso. Finora, in parola d'onore, di piedini così belli non ne avevo veduto che in casa mia.

      – Che dite mai, conte? – esclamò Arrigo, sconcertato dal paragone.

      – Sì, proprio; – continuò il Ganimede; – se non avessi veduto che il piedino, avrei giurato che fosse quello di mia moglie. Ma la dama che ho veduta qui presso, in via Sallustiana, era vestita di color marrone. Ora la contessa odia i marroni; non può soffrire neanche il colore. —

      Cesare Gonzaga osservò che suo nipote era sulle spine. Via Sallustiana, la scala di là, il colloquio d'affari, gli si affacciarono alla mente collegati per un filo arcano alla dama del piedino maraviglioso.

      – Conte, – diceva frattanto Arrigo, per rompere quel discorso così poco piacevole, – permettete che vi presenti mio zio, giunto a Roma stamane.

      – Ah, l'aspettato, il desiderato marchese Gonzaga? Fortunatissimo di conoscerla! – disse il conte Morati.

      – Sì conte; – rispose il vecchio inchinandosi. – Cesare Gonzaga, per obbedirla, ma senza il titolo che la sua bontà mi attribuisce.

      – Zio, ci hai diritto; – entrò a dire Arrigo, che non poteva mandar giù quella rinunzia alla corona marchionale. – Sei l'ultimo dei Gonzaga di Luzzara, e questi sono sempre stati marchesi. In casa tua c'era anche l'albero genealogico.

      – Ah, l'albero! – rispose il vecchio ridendo. – Sì, c'era, in casa; ma il giorno che non diede più frutto, mano alla scure, e ziffe! Ho bruciato l'albero, signor conte, e mi son rifatto modestamente dal ceppo.

      – Ella è molto ricco, da quanto mi ha detto Arrigo; – notò il conte Morati. – È un'altra bella cosa. Io, per dirle la verità, vado allegramente in rovina. —

      E sedette, il vecchio Ganimede, facendosi una spagnoletta.

      – Diamine! – pensò Cesare Gonzaga. – Debbo io tirar fuori il portafogli, o tenerlo ben chiuso in tasca?

      – Ma intendiamoci, – proseguiva il conte, scherzando con le parole come le sua dita scherzavano con la carta velina, – adagino, senza fretta. Non ho figli, nè conto di averne per ora. E mi verrà forse il desiderio, più tardi? Io già non li amo, i ragazzi. Quando sarò più avanti con gli anni, chi lo sa? Basta, mio caro Valenti, – soggiunse il conte, accostando la spagnoletta alla fiamma della candela, che Arrigo gli aveva premurosamente accesa, – ho veduto, venendo da voi, il più bel piede d'Italia. E poco dopo, davanti al vostro portone, i due più bei cavalli d'Inghilterra. Vengono, nientedimeno, dalle scuderie del duca di Blackborne. Li possiede il Meissner, che se ne va da Roma e vuol venderli. Che stupendi animali! Il piedino mi è sfuggito, perchè entrava allora in un brumme, che andò via di galoppo; ma i cavalli, perbacco, non dovrebbero sfuggirmi. Appena uscito da voi, passo dal mio ministro delle finanze, e se ha danari in cassa, mi slancio a conquistar la pariglia.

      – Conte, – disse Arrigo, che aveva frattanto ricuperata la sua calma, – se il vostro ministro delle finanze tenesse fermo sulle economie, ricordate che la mia cassa è ai vostri comandi.

      – Grazie, Valenti, grazie infinite.

      – Accettate, dunque?

      – Accetterei, dato il caso; ma il caso non si darà. Il mio ministro è un brav'uomo; mi rizza un po' il muso, quando mi vede dare certi strappi; ma poi si rimette, e quando non ne ha più, è segno che ne ha ancora. È un ministro prezioso, in fede mia! Venite a pranzo da noi, quest'oggi? La cosa spiacerà un pochino a mia moglie, che non vi ha tra le sue simpatie; ma non importa, rideremo. —

      Cesare Gonzaga stava ascoltando a bocca aperta quello strano personaggio, che sfringuellava con tanta leggerezza i fatti suoi. Ma quando il signor conte venne a parlare delle antipatie della moglie, non seppe più trattenere una piccola osservazione.

      – Arrigo, ti fai dunque odiare a questo modo?

      – Non badi; – rispose il conte. – Si tratta di capricci, di ubbìe femminili. La contessa stima molto il mio amico Valenti, ma le pare troppo serio, troppo asciutto, e che so io. Del resto, mio caro Arrigo, penso anch'io che Giovanna abbia un po' di ragione. Siete troppo grave, troppo asciutto, troppo savio, per la vostra età. Si direbbe che non siate mai stato giovane.

      – Proverò a diventarlo poi; – rispose Arrigo, sorridendo pacatamente, come un dio dell'Olimpo.

      – Ah, meno male! Venite dunque?

      – Conte, quest'oggi è impossibile. Mio zio è arrivato stamane.

      – È vero, non ci avevo pensato; bisogna star con lo zio. Ma più tardi, almeno, per il tè? Presentiamo lo zio alla contessa, e son certo che le piacerà più del nipote. Accetta, signor Gonzaga?

      – La bandiera ha dunque da coprire la merce? – disse lo zio Cesare. – Bandiera vecchia, ahimè! —

      Il conte fece una spallucciata, a quelle parole del Gonzaga.

      – Vecchia? Eh via! – esclamò. – C'è egli dei vecchi tra noi, se escludiamo suo nipote? Badi, dunque, annunzio la sua visita. Ella troverà molta gente, quel che ci vuole per esser più liberi. Avremo parecchie tra le celebrità femminili di Roma, che, in punto di donne, ha sempre l'impero del mondo; per esempio la Savelli, bellezza stagionata, se vogliamo, ma solida; la Carini, che è sempre tanto carina; la Manfredi, che è un fiore appena sbocciato… —

      Arrigo a quel punto interruppe la rassegna, che poteva diventar lunga come quella delle navi, in Omero.

      – Verranno i Manfredi? – diss'egli. – Senti, zio? Ecco una buona occasione per te. —

      Lo zio Cesare, che quel lieve accenno ad un fiore appena sbocciato aveva già fatto fremere, sollevò lentamente il petto, come per chiuder la via ad un sospiro; poi crollando la testa, rispose:

      – Ti pare? Non ho ancora veduto Andrea.

      – Conosce il senatore Manfredi? – gridò il conte Morati di Castelbianco. – Un uomo d'oro, al proprio e al figurato!

      – Se lo conosco! – rispose Cesare Gonzaga, mettendo quella volta liberamente il sospiro che aveva trattenuto da prima. – Andrea Manfredi fu il mio amico di gioventù, il mio compagno di studi, il mio fratello d'armi. Abbiamo combattuto insieme, in questa Roma divina! Che direbbe ella dei fatti miei, signor conte, se io, amico suo da tanti anni e ritornato finalmente nella città dov'ella abita, la dovessi combinare in casa d'altri, senza esser venuto direttamente, prontamente, a cercarla?

      – Eh via, zio! – entrò a dir Arrigo. – Ci vai dopo colazione, e il colpo è fatto.

      – Arrigo consiglia bene, come sempre; – notò il conte. – È veramente Arrigo il savio; lo ascolti. Siamo dunque intesi; a rivederla questa sera, e lietissimo della fortunata occasione. Addio, Arrigo! Vado dal ministro delle finanze, per quella pariglia che mi sta sul cuore… come quel piedino di fata.

      – Sempre? – disse Arrigo, ridendo per quella volta liberamente.

      – Che ci volete fare? Sono un povero peccatore che il diavolo ha sempre pigliato dai piedi. —

      E se ne andò, ridendo della sua frase, che gli era parsa argutissima.

      Rimasto solo con Arrigo, il vecchio Gonzaga si piantò davanti al nipote e gli ficcò addosso gli occhi scrutatori.

      – Dimmi, Arrigo… il piedino di via Sallustiana…

      – Non mi chieder nulla, zio; – rispose quell'altro. – Il Castelbianco mi aveva fatto


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