Arrigo il savio. Barrili Anton Giulio

Arrigo il savio - Barrili Anton Giulio


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tinge disperatamente. È una caricatura.

      – Eh, l'ho veduto. E facendo ridere, il che è già brutto, va anche in rovina?

      – Non lo credere; – rispose Arrigo. – È un suo vezzo di parlare così, un ticchio di gran signore. Ne ha spesi molti, in gioventù, ma ancora oggi può valere un paio di milioni. Ed è conte.

      – Che cosa vuol dire?

      – Vuol dire moltissimo, zio. Anzi, vedi, ti prego di non incocciarti nella tua democrazia, che fa a pugni col tuo casato. Qui il disprezzo dei titoli non è di moda. Chi ne ha uno lo inalbera; chi non l'ha lo inventa. I titoli nobiliari son tutto, perfino negli affari, ove non dovrebbero aver valore che quelli di banca. Non si fa un consiglio d'amministrazione di miniere, di strade ferrate, di vapori e via discorrendo, che non ci mettano una mezza dozzina di corone. Non fanno nulla; ne ho sentiti io che dicevano cose… dell'altro mondo; ma non importa, ci stanno bene, decorano. Ed anche nelle livree, senti, una corona non guasta.

      – Che follìe! – esclamò il Gonzaga.

      – Follìe! – Lo dici tu, che ritorni dall'India. Ma il nostro mondo occidentale è fatto così; prendiamolo com'è. —

      Il vecchio Gonzaga stette alquanto sopra di sè; poi disse, con accento malinconico:

      – Arrigo, Arrigo, sei tu che parli così? La nobiltà del sentire e dell'operare, quella è la vera. Anch'io amo i bei nomi… quando sono portati bene da non degeneri nipoti. Ma poi, vedi, la penso come Isocrate. Ti parrà strano che io venga dall'India per citarti Isocrate; ma non ti stupire, è un ricordo di scuola. Per Isocrate, adunque, la nobiltà risiedendo tutta nel capostipite e derivando da lui, valeva meglio che l'uomo fosse egli capostipite della propria. Chi erano gli antenati di Pipino d'Heristal? Se ne conosce uno, uomo dappoco, e solo da Pipino d'Heristal incomincia il lustro dalla casata. Aggiungi a questo Pipino la gloria di altri due nomi, Carlo Martello e Carlo Magno, perchè io ti ho voluto citare l'esempio più favorevole alla tua tesi; e che cosa vien poi? che cosa rimane della stirpe nobilissima? Un branco di sciocchi. Dunque, ragazzo mio, non ci vantiamo tanto di una nobiltà che non è discesa “per li rami„ e cerchiamo invece di fabbricarcene una, che sia ben nostra, e frutto di azioni virtuose. —

      Arrigo Valenti non la intendeva così.

      – Parole! – mormorò egli. – Ma nel fatto…

      – Orvia, non voglio sentir altro! – gridò Cesare Gonzaga, che incominciava a perdere la pazienza. – Vedi, Arrigo, se tu non amassi, la qual cosa mi riconcilia un pochino con te, ti crederei diventato cattivo.

      – Amo, sì! – disse il giovane, – e appunto perciò ti ho pregato di venire a Roma.

      – Alla buon'ora! E in che modo potrei servirti io?

      – Presentandomi in casa Manfredi.

      – Oh! – disse lo zio, inarcando le ciglia. – E dovevo venir io a bella posta dall'India?

      – Come per citarmi Isocrate, sicuro. Ecco qua, zio, lo stato delle cose. Il senatore Manfredi è molto sostenuto con me. Con tutte le mie relazioni, con tutti i miei denari, non mi riesce di penetrare in quella casa. Ci troviamo spesso insieme, ora in una conversazione, ora in una festa da ballo; ma niente mi serve; il banchiere senatore è sempre di ghiaccio con me, ed io non ho potuto ancora rompere quel ghiaccio. —

      Cesare Gonzaga era stato a sentire attentamente il discorso di suo nipote. Appena questi ebbe finita la sua esposizione, il vecchio rimase un pochino sovra pensiero, masticando qualche frase, che stentava ad uscirgli di bocca.

      – Parliamoci schietto; – diss'egli finalmente. – Saresti in qualche cosa venuto meno a certi principii?.. Andrea, se è sempre l'uomo che io ho conosciuto, su certe materie non ischerza.

      – Zio, – rispose Arrigo con accento sicuro, – non ho mai fatto cosa di cui debba arrossire. Ho imparato da ragazzo a meditare sulle mie azioni, e se sono venuto al punto di non far mai se non quello che metteva conto a me, credi pure che ci sono riuscito senza offendere il diritto degli altri. Il Manfredi non mi ha in grazia. Perchè? Lo saprà lui; fors'anche non lo saprà. Ci sono qualche volta delle antipatie irragionevoli. A buon conto, egli non sa che io sia tuo nipote, nè io ho creduto prudente di dirglielo, amando meglio di aspettare, per ferire un gran colpo. Una sera, in casa Savelli, me presente, ricordando nomi ed uomini del passato, egli venne a parlare di te, e il suo gelo si squagliò come per incanto; ti citò come un esempio di alto carattere, come un modello di amico; insomma, ne disse tante, che lasciò tutti maravigliati, non solamente dei tuoi meriti, ma anche della sua eloquenza. In verità, non ne aveva mai sfoderata tanta in Senato.

      – E allora, – osservò il Gonzaga, ridendo – ti è venuto in mente di chiamare a Roma quel fior di virtù? Guasti pur troppo la bella immagine che io m'ero formata dell'amor tuo. Bene! bene! La gioventù è sempre un pochino egoista. Già, per dirtela schietta, mio caro nipote, in parecchie cose ti vorrei vedere, per la tua età, meno uomo. È una mia idea, ed avremo tempo a discorrerne. Dimmi, invece, come e perchè ho da servirti io, presso il banchiere Manfredi? Di credito non ne hai bisogno, a quanto so. Vorresti forse entrare in qualche operazione bancaria con lui?

      – Ha una figlia; – rispose Arrigo.

      – Ah! Il fiore appena sbocciato; – disse lo zio Cesare, sospirando da capo. – E l'ami?

      – La voglio.

      – È un po' diverso, ma potrebb'essere, in certi casi, lo stesso. Ma, scusami, e quell'altra? Povera donna…

      – Oh, Dio mio! Ce ne son tante, di queste povere donne!

      – E perchè ce ne son tante, tu vorresti aggiungerne un'altra?

      – Infine, – disse Arrigo, vedendo che lo zio si rabbruscava, – non credere che ella mi ami. Mi ha detto, anzi, che tutto ha da finire tra noi.

      – Giuramelo! che cos'hai di più sacro?

      – Per la memoria di mia madre; – rispose Arrigo.

      Il vecchio si rasserenò, udendo l'invocazione, che non poteva essere bugiarda.

      – Quand'è così; – riprese, – tanto meglio! In fondo, non mi mettevo io a predicare la costanza… nella illegalità? Bei consigli da vecchio! Or dunque, mio bell'Arrigo, sebbene mi dispiaccia un pochino di rifar la vita dei salotti e delle conversazioni, spendimi pure; sarò il tuo uomo. E dimmi, ci sono già vincoli, in aria?

      – No, – disse Arrigo, che aveva capito a volo, – ma potrebbero venire. C'è un conte che mi dà noia.

      – Sei amato?

      – Credo.

      – Ma bravo! E navighi così, tra questa e quella, tra la riva e gli scogli?

      – Credi, buon zio, che sono assai più vicino alla riva.

      – Ehm! – rispose il Gonzaga. – Se debbo giudicarne da poco fa, tu rasenti ancora troppo gli scogli. —

      Arrigo diede in uno scoppio di risa. Passato il pericolo, anche un marinaio può ridere così.

      – Caro zio! – esclamò egli, abbracciando il vecchio cortese. – Sei giovane, tu, pieno di fuoco. Ci scommetto che a te piacerebbe più lo scoglio, anche a rischio di dare in secco.

      – In secco, no! – rispose lo zio Cesare. – Ma via, non mi far parlare… come il tuo conte di Castelbianco. —

      Ridevano le due età, così lontane l'una dall'altra, che la voce del sangue aveva ravvicinate. Arrigo Valenti intravvedeva la vittoria e già gli pareva di metterle la mano nei capegli. Cesare Gonzaga era in fondo un po' triste, perchè aveva trovato il suo nipote troppo savio, troppo calcolatore, forse per eredità di esempi paterni; ma infine, ci aveva trovato anche qualche sentimento gentile, soave eredità di sua madre, che gli affari di banca e le vanità sociali non avevano intieramente soffocato. Del resto, egli era venuto, e con la sua autorità di zio sperava di richiamarlo sul retto sentiero. Arrigo, a buon conto, era ancor giovane, e amava la figliuola di Andrea Manfredi, del suo


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