Arrigo il savio. Barrili Anton Giulio

Arrigo il savio - Barrili Anton Giulio


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il signor Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, cavaliere compitissimo e disgraziato per giunta. In un'ora aveva dato sesto alle cose sue, e giungeva trafelato, quantunque fosse andato e tornato in carrozza.

      – Sono allegri! – diss'egli, entrando nello studio e trovando zio e nipote ancora in atto di ridere.

      – Ma sì; – rispose Arrigo. – E tu, Orazio, hai una cera da funerale. —

      Orazio Ceprani tentennò malinconicamente la testa.

      – Eh, credi, caro mio, – rispose egli, – che ottantamila lire non sono come un mucchio di soldi nella scodella di un cieco. Che liquidazione si prepara! Anche tu, scusami, non hai mica da stare allegro!

      – Perchè? – chiese Arrigo, chiudendo gli occhi a mezzo e allungando le labbra, con quell'aria di cortese ironia che abbiamo già veduto, al suo primo apparire nello studio.

      – Perchè il Verni è fuggito, a quanto dicono, e credo ti levi di tasca un ventimila lire.

      – Una bella somma! – notò Cesare Gonzaga. – Una povera famiglia ci camperebbe dieci anni.

      – Pazienza! – rispose Arrigo, sorridendo ancora, sorridendo sempre. – Il Verni, per tua norma, io lo avevo già calcolato tra i dubbi. Caro mio, non ci ha da esser niente di impreveduto nella vita di un uomo. Si studiano dapprima tutte le probabilità, favorevoli e contrarie, e poi si giuoca la posta. Così, vedi, Orazio, questa perdita io l'avevo preveduta. Ho venduto a lui, sapendo in anticipazione di perdere, per non aver l'aria di un taccagno. Il Verni frequentava la migliore società. Ora, ecco un uomo in mare. Me ne duole per lui; quanto alla perdita… —

      In quel momento Happy era comparso sull'uscio per dire:

      – Il signor cavaliere è servito.

      – Sta bene, – ripigliò Arrigo Valenti. – Quanto alla perdita, essa non c'impedirà di fare una buona colazione, se il cuoco non è fuggito, o non ha perduta la testa. Zio, per farti strada! —

      E passò avanti, il felice Arrigo, e gli altri due lo seguirono nella sala da pranzo.

      IV

      La contessa Giovanna Morati di Castelbianco, presso la quale andremo ad aspettare i nostri personaggi, con la certezza di conoscerne altri parecchi, fior di cavalieri e di dame, la contessa Giovanna, dico, era una bella donna sui trentadue. È una brutta cosa, lo so, contar gli anni alle donne; ma i narratori hanno dall'ufficio loro il triste obbligo di essere più noiosi dei presidenti di tribunale; i quali, almeno, procedendo all'interrogatorio di una bella testimone, possono incominciare, quando sono galanti, press'a poco così:

      – Signora, quanti anni ha? Ventidue, non è vero? —

      Dunque, la contessa Giovanna ne aveva già trentadue; età, dopo tutto, in cui la bellezza è giunta al suo pieno rigoglio, e può ancora aspettare una lieta maturità. Una bell'alba, sicuramente, ha i suoi pregi, e piacerebbe anche al re Saulle, che fu, come sapete, l'uomo più scontroso e bisbetico della storia. Ma un sole al meriggio, Dei immortali! Un sole al meriggio scotta. E la bellezza della contessa Giovanna era proprio così, per testimonianza di molti, che s'erano argomentati di godere accanto a lei d'un calor temperato; scottava senz'altro. Molto grave, tuttavia, sotto le mostre di una conversazione arguta e di una affabilità costante; più grave allora, quasi melanconica, e in certi momenti anche triste. Pareva che la sorte, concedendole la ricchezza e lo sfarzo di una condizione invidiata, le fosse stata avara di ciò ch'ella avrebbe desiderato assai più, come a dire una felicità più modesta e più ignota. E taceva, nondimeno, il suo intimo tormento; e si padroneggiava, obbligata com'era a ricevere, a sorridere, a dir parole garbate; ma in quell'ufficio di cortesia si indovinava lo sforzo, e quella sera più che mai.

      Povera donna, mal maritata! Sentite i discorsi che le faceva, dopo tavola, il suo signore e padrone. Avevano pranzato un poco prima del solito, perchè ella avesse tempo a disporre ogni cosa per il suo tè. Era un tè semplice e semplicemente annunziato; ma diventava sempre, aiutando il numero dei convitati e le voglie della gioventù, un tè danzante. Si dice danzante, o danzato? Nè l'uno, nè l'altro, probabilmente; era invece un tè, che quando c'eravate tutti voi, insieme con tutti noi e con tutti loro, si tirava discretamente nell'ombra, e lasciava che da una parte si ballasse, dall'altra si giuocasse, e più in là si trovasse anche una succulenta imbandigione, la quale non so perchè non si chiamasse cena a dirittura. I tè, chiamati anche martedì, della contessa Giovanna, duravano dai primi di gennaio fino agli ultimi di febbraio, e godevano di una riputazione straordinaria; ma non ci si era ammessi molto facilmente, e il numero dei cavalieri non oltrepassava d'ordinario i cinquanta, tra vecchi amici di casa ed altri, che, avendo conosciuto i Castelbianco in qualche società e portato al palazzo della contessa due biglietti di visita, erano stati ricambiati da un biglietto di visita del conte. Le amiche e nemiche intime di Giovanna, quasi sarebbe inutile il dirlo, accorrevano tutte, e, sebbene non ci fosse la pretesa di un ballo, ci andavano in grand décolleté. Dico la cosa in francese, perchè non c'è in italiano, e se c'è, non mi piace trovarla.

      I Castelbianco si erano alzati da tavola, e la contessa si muoveva per andare nelle sue camere ad abbigliarsi, mentre il conte aveva accennato all'idea di dare una corsa fuori di casa.

      – È sperabile, – notò la signora, – che non farete stasera come l'altro martedì, e non andrete al vostro eterno circolo.

      – Non andrò; – disse il conte, sospirando.

      – Capisco, per voi è un sacrifizio rinunziarci; – replicò la signora.

      – Che dite, mia dolce amica? Mi ci diverto, in casa, mi ci diverto un mondo. Ma quando mi ci sarò ben divertito, – continuò il conte, mutando il sospiro in un mezzo sbadiglio, – non saprò più che fare, nella mia beatitudine. Ah, Giovanna, perchè non siete voi… la moglie di un altro? Vi farei una corte spietata, e non senza qualche speranza.

      – Vi ringrazio del buon concetto che avete di me.

      – Si scherza. Ma, dopo tutto, essendo io l'aspirante… Vedete che il rischio non è tale da spaventarmi. Siete bella, Giovanna, avete una testa da imperatrice, e, per andare fino in fondo, il primo piedino dell'universo. Ma non siete più sola, badate!

      – Che cos'è quest'altra stravaganza? – domandò la contessa, seccata da quei discorsi sciocchi, ma non potendo tuttavia trattenersi dal ridere.

      – Eh, vorrei che lo aveste veduto, come l'ho veduto io questa mattina, in via Sallustiana. Un piedino, che pareva il vostro! Non andate in collera, mia dolce amica. Ammirandolo come ho fatto, non son venuto meno a nessuno dei miei doveri. Mi pareva tanto la stessa cosa, che a tutta prima ho pensato a voi, e mi son chiesto quale delle vostre amiche abitasse lassù.

      – Bella! – esclamò la contessa. – Son forse andata a far visite?

      – Capisco, ma che volete? Lì per lì, mi era parso che poteste esser voi. Per fortuna, se non ho veduto il viso, ho veduto una veste color marrone; e voi il marrone lo odiate.

      – Esagerazione! Non mi piace tanto, ecco tutto; – rispose la contessa, scuotendo la sua bella testa da imperatrice. – E che cosa andavate voi a fare lassù?

      – Volete saperlo? Andavo a trovare il mio amico Valenti; quel poveraccio che voi non potete soffrire.

      – Altra esagerazione! – ribattè la signora. – Mi è indifferente, e voi, a furia di dire queste cose, finirete col fargli credere che qui si parla molto di lui.

      – Giustissima, l'osservazione! – disse il conte. – A proposito, stasera vi presento suo zio, tornato dall'India, il signor Cesare Gonzaga, un bell'uomo, ancor giovane, coi suoi capegli grigi, che ha la debolezza di non voler essere chiamato marchese, essendolo: come un altro, non essendolo, avrebbe quella di farsi dare quel titolo. È un carissimo uomo, del resto, e metterà un po' di brio in questi vostri ricevimenti, che mi paiono, scusate, un tantino monotoni.

      – Ci vengono tutti i vostri amici, e le mie amiche migliori; – osservò la contessa.

      – Ah,


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