Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!. Beltramelli Antonio

Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella! - Beltramelli Antonio


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      Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!

      I

      Io mi ricordo, Giacometta, quando vivevi nella tua casa bianca, dai grandi cristalli; sul lembo di un giardino. Allora avevi sedici anni ed eri la sola Giacometta di tutta la città.

      Conducevi la vita delle persone per bene: uscivi poco, forse la domenica per andare alla messa con la veste più nuova; e, qualche rara volta, quando era proprio bel tempo, uscivi per far la tua passeggiata.

      E la gente della tua città ti guardava perchè eri bella. I giovani si fermavano ad ammirarti.

      – Quella è Giacometta!

      – Che bella bambina!

      E non c'era, dinanzi a Dio, nessun'altra Giacometta all'infuori di te.

      Così tocca alle vergini, qualche volta, quando escono dal convento, per ritirarsi in una città di provincia che è un convento un poco diverso.

      Ma tu avevi una casa bianca, tutta grandi finestre e cristalli che si accendevano, nelle albe e nei tramonti, dei fermi bagliori del cielo; avevi una casa come un faro, sul lembo di un antico giardino ed ivi regnavi, sola donna e madonna, fra due zii antichi e ricchissimi, per i quali eri, con tutta la tua giovinezza, un paradiso.

      Sì, Giacometta, tu eri il paradiso anche per me che non ero tuo zio e avevo forse dieci soldi ogni domenica per allietare la mia sontuosa giovinezza.

      Avrei io potuto pensare a te, logicamente, con dieci soldi per settimana?.. Io, figlio della scarna probità in camicia e dedito agli economici legumi?

      Ma avevo diciannove anni solamente (ora ne ho forse qualcuno di più, e non importa) e la mia semplicità e un cuore spendaccione; avevo anche un amore sconfinato per le nuvole, per i sogni, per le apparenze, per le notti stellate, per il tempo di primavera e per il mistero de' tuoi grandi occhi celesti, Giacometta dalla veste blu.

      Perchè avevi allora una veste blu ed io ti vedevo nel giardino; io solo che ero un imperatore nella mia soffitta la quale era buia, sudicia e fredda ma guardava sul tuo giardino.

      E il mio cuore stava sempre alla finestra.

      Tu lo vedesti un giorno, questo mio cuore un poco scemo, come un geranio rosso nel quadratuccio buio della mia soffitta ed io sentii un'ebetudine fonda paralizzarmi e una beatitudine infinita irradiare il mio corpo mortale, figlio della probità e degli economici legumi.

      Allora il mio nome scomparve fra le cose luminose di questa terra ed io non fui più niente, non fui più che un sospiro e un ardore nella tua scia, giovinetta dai grandi occhi celesti che ridevi come un'allodola canta quando si ruba l'anima dei poeti e delle nuvole.

      E la città dai tre campanili non parlava allora che di te, sempre di te, Giacometta Maldi, orfana, ereditiera, bella e misteriosa. Chi ti avrebbe dato marito? Quale befana impennacchiata sarebbe giunta fino al tuo cuore col suo pargolo vezzoso, appena slattato, ma sicuro già di impalmarti per le giuste nozze? Quale margherita familiare avrebbe potuto trarti alla sua casa con tutti i tuoi poderi, per mezzo di un onesto figlio di famiglia tutto amorose virtù?

      Chi sposerà Giacometta Maldi?..

      Ecco il bando per la città grugnita, dai tre campanili; e tutti gli uomini e gli omuncoli dai quindici ai trent'anni, si misero a far la Maratona sotto le tue finestre; e tu non uscivi che non ne avesti quindici o venti, sparsi lungh'esso la strada, in tutte le positure, con tutti i sospiri, coi più ardenti e allumacati occhi, tutti fluente giulebbe per te, per te angelo dalle belle ali, e ben piumate.

      Ahi Giacometta, Giacometta!

      E si mosse la signora Carolina e la signora Geltrude e la contessa Buttasenno e la marchesa Palmividi e la principessa Assaiassai! Tutte si mossero le squinternate signore, per Giacometta che aveva gli occhi celesti; e vestiron di gala e tentaron gli ispidi zii i quali rispondevano sempre con lo stesso muso e nello stesso tono:

      – Lo racconta a noi? E che ci entriamo noi?.. Ne parli a Giacometta. E' lei che deve sposare.

      Ma Giacometta, fin dalle prime parole, rideva.

      E la città dai tre campanili si accigliò, fece il viso dell'arme.

      – Ah, quella Giacometta, che testa romantica!.. Che brutta educazione!.. Ma che vuole? Ma che cosa aspetta? Il principe delle Asturie? Già, infelice l'uomo che la prenderà in moglie, con quel temperamento!.. È una cavallina da brutte sorprese!.. O certo che il marito, le corna le avrà dopo un mese, a farla lunga!..

      E fosti diffamata per la bocca stessa di quelle befane che volevano impalmarti coi loro mocciosi.

      Ma tu rimanesti la bella dal giardino incantato nel quale i tuoi ispidi zii solevano tendere il roccolo per uccellare nel grande silenzio; e, appunto per virtù del roccolo, ti destavi al «Francesco mio» dei fringuelli, e accendevi il lume con l'ultimo canto dei malinconici pettirossi i quali escono dalle siepi sulle rame più in cima, a cantare alla luce che muore.

      E il sole era sempre con te.

      II

      Guardati dai salti improvvisi, anche se dovesse chiamarti Elena argiva.

      Giusto in quel tempo passasti dai sedici ai diciassett'anni e raccogliesti i tuoi cappelli biondi in una nuova acconciatura.

      Chi ti insegnava ad essere tanto mai bella, Giacometta, ahi, Giacometta?..

      E il mio cuore, povero e inutile vagabondo, stava sempre alla finestra. E tu alzavi gli occhi celesti per vedere la mia ammirazione che si pietrificava nello spasimo. Io stavo diventando un oggetto scemo sul davanzale di una finestra.

      A volte ti udivo ridere di lontano; a volte giungevi di gran corsa tutta affannata e rossa; a volte parlavi con qualcuno… con chi?.. con qualcuno al di là del vasto giardino, per il mondo. Parlavi ma non percepivo le parole; udivo bensì la tua giovine calda voce.

      Poi ti si disse, e non so perchè, ch'io avevo licenziato qualche parola rimata per le stampe e ti venne in mente ch'io fossi un poeta, io, nutrito di onesti legumi e coi miei poveri dieci soldi per settimana! I poeti portano le corone di alloro ed io avevo un cappelluccio verdino e tutto spellato come una vecchia gatta e avevo altresì una miseriola di vestito che quasi quasi non mi copriva niente.

      Così le scarpe piangevano dai loro tiranti e la cravattina si faceva sempre più striminzita e lisa e senza natural colore.

      Potevo essere degnamente poeta con simili masserizie? Io ero appena un povero oggetto scemo sul davanzale di una finestra e avevo le scarpe solate di bucce di cocomero.

      Ma tu mi vedevi e bastava questo perchè il mio affanno crescesse a dismisura. Poi siccome le alterazioni dello spirito si ripercuotono nella nostra viva materia, io venivo perdendo l'appetito di giorno in giorno mirabilmente, il che, per le domestiche economie, non era trascurabile.

      La mia formidabile zia, quando eravamo a tavola, io e lei e Salsiccia, il gatto rosso, vedendo il mio piatto vuoto, mi chiedeva stridendo:

      – Perchè non mangi?

      – Non ho fame.

      – Bravo! Chi non mangia ha mangiato.

      E ciò bastava allo spirito di lei che era altruista, mentre io ero un languido giovane che dimagriva dietro le meraviglie del giardino di Giacometta.

      E un altro giorno mia zia, la signora Adalgisa, mi disse:

      – Tu mi sembri Salsiccia nel mese di gennaio, quando si innamora!

      Bisogna sapere che Salsiccia, nel mese di gennaio, diventava il più brutto e magro ed ispido gatto dei dintorni, forse perchè era troppo sensibile e si ostinava a voler darsi appassionatamente a chi non voleva saperne di lui. Ritornava altresì questo gatto, dopo lunghe misteriose assenze, pieno di guidaleschi e mezzo divorato dai rivali suoi soffianti.

      Il paragone turbò la mia bianca estasi e mi destò nei precordi un senso di ribellione; ma tacqui perchè la signora Adalgisa non ammetteva le si potesse dar torto.

      Poi, una volta accadde questo. Ero al mio davanzale, quand'ecco venir di corsa Giacometta.

      Il sole faceva della bianca casa di lei, in fondo al giardino,


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