Tre racconti. Bersezio Vittorio

Tre racconti - Bersezio Vittorio


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luce della sua intelligenza. Gli ho promesso di tacerlo, e coll'ultima stretta di mano che abbiamo scambiata, ho dato ragione alla sua misantropica e valorosa rinuncia. Il suo nome, ch'egli decretò e volle seppellito nel più profondo oblìo, non comparirà su queste carte. A me stesso egli lo tacque, e se anche ho potuto indovinarlo, non contristerò, svelandolo, la memoria di quell'anima infelice.

      In uno degli ultimi nostri colloqui, egli mi diceva, con un cotal suo sorriso, tra bonario ed amaro, che gli era abituale:

      – Se invece di questo cimitero di campagna, in cui un'erba pietosa e non curante agguaglia tutte le fosse e circonda tutte le croci, il mio cadavere avesse da essere seppellito in un camposanto cittadino, dove si fa pompa di lapidi e di iscrizioni, vorrei che sulla mia tomba modesta si scrivesse superbamente: «QUI GIACE UN ANONIMO.» —

      Codesto suo detto, fate conto che sia l'epigrafe della mia narrazione.

      II

      Dunque gli è in un villaggio, – in una remota regione – che l'ho incontrato.

      Un mio nobile amico ha colà una gran tenuta intorno ad un'antica e vasta casona, che in paese chiamasi il castello, dove si conservano da tempi lontani, tradizioni rispettatissime d'una gentilezza ospitale senza eccezione.

      Il paese è vicino alle montagne; un contrafforte delle Alpi allunga nella pianura le sue radici, a variare di collinette e di valloncini l'amenità dell'imboschito terreno; intorno all'antico palazzo si stende un giardino abbastanza vasto per potersi insuperbire del titolo di parco.

      Una vegetazione ricca, fresca e feconda veste le chine dei colli con albereti leggiadri alla vista, e porge, anche contro l'insolente saettare del sole di mezzogiorno, gradevoli ripari d'ombra, rallegrati dal venticello della montagna. Al piede di quella collina, su cui il castello innalza le sue muraglie annerite, il villaggio – povero assembramento di casipole, che somigliano a capanne – si sdraia, direi quasi timidamente, e par che cerchi nascondere i suoi tetti, la maggior parte di paglia, alcuni di lastre di pietra, sotto le fronzute chiome di castagni e di noci, che crescono e s'innalzano a mirabili proporzioni da ogni orto, da ogni praticello.

      È un cantuccio riposto, dove non penetrano le passioni e le gare degli uomini raccolti nelle agglomerazioni cittadine e spronati al male dall'interesse. Là non c'è strada di passaggio, non c'è commercio, non c'è industria, non ci sono caffè, non ci sono giornali. Un ramo assecchito di quercia indica una misera osteriuccia, composta di una sola stanzona a piano terreno, la quale vede la sua lunga tavola zoppa e le sue panche disoccupate tutta la settimana, per aspettare qualche avventore le domeniche.

      Quando tutto sossopra è il mondo, appena se colà ne arriva debolmente un'eco incerta e paurosa.

      In mezzo a questo sfoggio di vegetazione, spicca ancora per più fronzuta ricchezza il bosco del parco, in cui, sul culmine della collina, si drizza al cielo una fila di pini giganteschi, che hanno dovuto vedere molte generazioni d'uomini nascere e morire, e che coprono il terreno d'una oscura ombra solenne.

      Il nobile padrone del castello verso gli abitanti del villaggio è cortese, generoso, caritatevole. Li ama e n'è riamato pei beneficii ricevuti, per la speranza di nuovi ch'egli è sempre pronto a rendere, per una specie d'orgoglio che sì distinta persona appartenga al paese e vi dimori la maggior parte dell'anno.

      I cancelli del parco sono sempre aperti e dì e notte, tanto che, irrugginiti nei cardini, male si acconcerebbero oramai ad essere chiusi. I paesani vanno e vengono, con una libertà che non esclude il rispetto al padrone: e quando questi passeggia, ne trova sempre alcuni giù pei suoi viali, e ne viene salutato con ossequiosa famigliarità, a cui egli risponde lietamente accennando col capo e chiamando ciascuno col suo nome o nomignolo.

      Sotto le ombre di quell'antichissimo parco si dànno appuntamento giovani coppie innamorate, per discorrere del loro futuro matrimonio; colà accorrono vecchierelle e ragazzi a raccogliere i rami secchi, con un fastello dei quali scendono al loro tugurio a cuocere la cena della famiglia. Alcune volte qualche tristarello sbaglia, e invece della legna secca ci viene tagliando bellamente dei rami in piena vitalità e arboscelli di buona cresciuta, il che, quando gli accade di accorgersene, sdegna non poco il proprietario.

      – Ci porrò rimedio: – dic'egli allora in tono risoluto. – Il primo che io colga in sull'atto!.. —

      Ma il suo quos ego innocente non ha ancora recato il menomo male a nessuno.

      III

      Tutti i giorni, nel gran viale dei pini veniva a passeggiare, verso le cinque del pomeriggio, un omiciattolo vestito di scuro, accompagnato da un cane brutto e vecchio, di quelli che da noi si chiamano volpini.

      L'uomo faceva due o tre giri, tutt'al più, per quel viale, le mani dietro le reni, la persona curva, la testa bassa e l'occhio fisso continuamente sul cagnuolo, che correva un poco e tratto tratto veniva, la lingua penzoloni, a fregarsi alle gambe del padrone.

      Quell'omaccino soleva parlare al suo cane, come avrebbe parlato ad un suo simile.

      Quando il mio nobile ospite ed amico mi additò per la prima volta quest'originale, egli stava seduto per terra, e il cane, sdraiatoglisi accanto, teneva il muso sulle coscie di lui.

      “Buona sera, Ambrogio:” gli disse il castellano. “Come va?”

      L'uomo si levò il cappello con tutto il rispetto, ma non mosse la persona, per non disturbare il cane nel suo riposo.

      “Grazie, signore, non va male… Pomino ha corso più del solito, è qui stanco che non ne può più.”

      Di primo colpo la figura di quell'uomo aveva attirato la mia attenzione.

      Era egli di una bruttezza fenomenale; però non aveva nulla di ributtante. Sopra un corpo debole, esile, quasi direi rimpiccinito, si reggeva, come a stento, una testa grossa a capelli arruffati, in cui la parte superiore, e massime la fronte notevole per forti protuberanze, aveva un eccessivo sviluppo. Il volto era scarno e le guancie incavate, larga la bocca e pallide le labbra; giù in fondo alle occhiaie tralucevano occhi di color chiaro fra il grigio e il cilestre, i quali sembravano amassero nascondere la loro lucentezza sotto foltissime sopracciglia che scendevano dall'arco dell'occhiaia e dietro lunghi cigli che ne ornavano le palpebre. La carnagione aveva di color terreo; lasciava crescere a capriccio una barba rada, di colore sbiadito, oramai più che a mezzo incanutita; sulle sue labbra errava abitualmente un sorriso tra mite ed ironico, che alle volte si sarebbe potuto dir scemo, alle volte amarissimo. Nel parlare, negli atti, nel sogguardare aveva alcun che di svagato, di distratto, di noncurante, come se altrove, sempre, fosse il suo pensiero. Vestiva alla peggio panni di colore scuro, logori, che gli si serravano spiegazzati intorno alle gracili e macilenti membra.

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