Tre racconti. Bersezio Vittorio

Tre racconti - Bersezio Vittorio


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giù due o tre sorsi abbondanti. Quando fu vestito come gli pareva meglio, diede un'ultima sorsata e maggiore delle altre al liquore, si mise la bottiglia in tasca e fece per uscire. Azor, solito ad accompagnarlo sempre, si alzò sollecito e corse alla porta per seguirlo.

      – No, carino! – gli gridò l'operaio con istrano accento: – quest'oggi non si può: devi rimanere. —

      Il cane non volle subito tirarsi indietro: il padrone impaziente gli diede un calcio che lo mandò a guaire sotto il letto; Atanasio era già fuor dell'uscio, quando si pentì del suo brutto tiro e tornò indietro.

      – Azor! – chiamò con voce amorevole; e il cane venne strascinandosi colla pancia a terra, tutto umile, al suo cenno.

      Atanasio lo prese fra le braccia e lo baciò.

      – Chi sa se ti rivedrò ancora! – disse. – Sta' costì mio buon Azor, e Dio te la mandi buona. —

      Lo pose sul letto e poi uscì correndo.

      Trovò Lucietta, a cui disse voler parlare da solo a solo: aveva gli occhi stralunati, le mani e le labbra che tremavano; si vedeva chiaramente che l'infelice era fuori di sè.

      “O mio Dio! che cosa è avvenuto!” domandò ansiosamente la moglie di Pietro, spaventata a quella vista. “Qualche grande disgrazia?”

      Atanasio, come aveva sognato tante volte di fare, le si buttò in ginocchio ai piedi. Che cosa disse, non seppe mai egli stesso. Parlò come in delirio; e Lucietta, credutolo proprio assalito dalla follia, ebbe paura. Aveva essa fra le braccia il suo piccino e lo strinse al seno più forte e fece per fuggire. Il dissennato le impedì il passo.

      “No, no,” esclamò egli, “ora il dado è tratto. Voi non mi potete lasciar più che dandomi la vita o la morte… Voglio che sia così… O mia, o di nessuno mai più!”

      “Guardate quello che fate!” disse Lucietta. “Calmatevi; pensate al vostro amico, al vostro benefattore, a Pietro…”

      “Ah! non parlatemi di lui:” esclamò Atanasio digrignando i denti.

      In quella s'udì una voce chiamare dal cortile con allegra premura:

      “Lucietta! Lucietta!”

      Era Pietro, il quale, impaziente di rivedere la sua famiglia, arrivava col treno di due ore prima, per fare una sorpresa a sua moglie.

      Atanasio si gettò indietro quasi spaventato; quell'omaccione forte e robusto come un Sansone, si pose a tremare come un fanciullo. Che cosa avrebb'egli detto a Pietro? che cosa fatto ora in presenza di lui? Pensò un momento scannare Lucietta, poi gettarsi sul marito che accorreva, e sul cadavere di lui uccidere sè stesso. Ebbe paura egli medesimo de' feroci impulsi della sua anima. Corse alla finestra e la spalancò, non si era che al piano terreno e all'altezza del terrazzo; si slanciò nella strada e corse via, per l'oscurità della notte già piena, come un forsennato.

      Che cosa gli restava da fare? Agitò seco stesso la questione lungo tempo, senza decidersi a nulla. Quando suonarono le dieci, egli, come tratto da una forza fatale, si trovò al suo posto nella fonderia a capo degli altri operai.

      – Lucietta gli avrà detto tutto, – pensava: – fra Pietro e me che cosa sta per succedere? —

      VIII

      Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio.

      – Sa tutto! – diceva fra sè quest'ultimo. – Or ora scoppierà la bomba: – ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. – Meglio! Sono stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte.

      Pietro alzò la voce con accento imperioso.

      “Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue istruzioni. “Domani alle sei al posto… e guai chi manca!”

      A quell'ora si sarebbero aperti i forni.

      “A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno…” parve esitare un momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.”

      Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file.

      “Non ha nulla da dirmi signor Pietro?” gridò egli con voce alta e sonora.

      C'era tanta sfida nell'accento di quelle parole che Pietro si volse con aria di profondo risentimento.

      “Vi parlerò domattina:” rispose asciutto ed imperioso. “Ora fate quello che vi dico.”

      Se n'andò il principale, partirono gli operai, rimasero soli nelle officine Atanasio e quell'altro che doveva essergli compagno. Il primo di questi due scoppiò in una risata, proprio da pazzo.

      – Ah, ah il vile! – esclamò, parlando a sè stesso. – Vuole prorogare fino a domani la tragedia… Vuole avere ancora questa notte per sè… Questa notte?.. Giuro al cielo e all'inferno!.. —

      I forni incandescenti mandavano un calore veramente infernale, e quell'altro, facendolo notare ad Atanasio, propose di allontanarsi un poco.

      “Eh via! tu senti caldo!” rispose il forsennato. “Minchione! to'! bevi: questo ti rinfrescherà.”

      E porse al compagno la bottiglia del cognac, che l'altro non si fece pregare di molto per mettere alla bocca.

      “Bisogna anzi aggiungere ancora del carbone:” gridava Antonio. “Animo! Mano alla pala, e giù combustibile.”

      E congiungendo l'atto alle parole, cacciò a palate monti di carbone sul fuoco.

      Due ore dopo batteva la mezzanotte al campanile del villaggio: tutto era silenzio come in un cimitero, non si udiva che il crepitare del fuoco e il ribollire del metallo in fusione. Girolamo, finita la bottiglia del cognac, si era addormentato in un cantuccio sopra uno stramazzo. Atanasio, accoccolato in faccia allo spiraglio ardente della fornace, le mani sulle ginocchia e la faccia nelle mani, pensava.

      – Aspettare fino a domattina!.. Perchè?.. E poi che avverrà egli?.. Mi scaccerà… Forse mi vorrà umiliare in presenza di tutti… Oh no per Dio!.. Non lo vo' tollerare… È meglio finirla… Finirla subito, e tutti! Sì, tutti! Lasciarli dietro di me a godersi il loro amore? No: per la maledizione di Dio!.. Un poco d'acqua in quel metallo in fusione, e si salta tutti in aria, la fonderia, la casa, tutti!.. Oh sì, che bello spettacolo! —

      Rise e si alzò con impeto, per mettere in esecuzione quell'orribile progetto. Ma nel migliore ebbe paura. Aveva già in mano una secchia per gettarla e si trattenne. Come se avesse avuto sentore del pericolo, Girolamo in quella si svegliò.

      “Che fai tu costì?” gli disse.

      “Nulla,” rispose Atanasio: “Ho una sete che mi strugge le fauci, e pensavo di andare per un po' d'acqua fresca… Appunto, fammi il piacere, vacci tu.”

      Girolamo si scosse come un can bagnato, prese la secchia ed uscì.

      Atanasio, senza aver bene coscienza di sè stesso, saltò contro uno de' forni, il più grande, e con una gran mazza di ferro percosse nell'usciolo che ne otturava l'uscita. Un zampillo di fuoco sprizzò fuori lanciando scintille da tutte le parti. L'operaio ebbe appena il tempo di gettarsi in là, le bocche delle forme non erano ancora aperte e il rivolo di fuoco, come la lava d'un vulcano, precipitava rapido e stendevasi al suolo empiendo tutto di fumo, crepitando, fremendo, rombando. Atanasio spaventato volle gettarsi a tentar di tappare di nuovo quella uscita. Era impresa oramai sovrumana, impossibile: il fiotto impetuoso del liquido incandescente s'era aperto un largo passaggio e non era più un zampillo, ma un vero fiume ribollente, impetuoso, che


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