Obiettivo Primario. Джек Марс
cosa farò?” chiese. “Dopo la fine di quest’anno? Che tipo di lavoro da civile potrei mai trovare?”
“È facile,” disse Don. “Verrai a lavorare per me.”
Luke lo fissò.
Don parcheggiò in uno spazio sul fondo. Lì non c’erano altre auto. “Il Gruppo di Intervento Speciale è pronto a partire. Mentre tu eri sdraiato a letto a guardarti l’ombelico, io stavo lottando contro i burocrati e preparando documenti. Ho fondi assicurati almeno fino alla fine dell’anno. Ho un piccolo quartier generale nella periferia della Virginia, non lontano dalla CIA. Stanno applicando le lettere con lo stencil sulla porta in questo momento. Il direttore dell’FBI ha fiducia in me. E ho parlato a telefono, brevemente devo sottolineare, con il presidente degli Stati Uniti.”
Don spense l’auto e guardò Luke.
“Sono pronto ad assumere il mio primo agente. Saresti tu.”
Fece un cenno con il capo a un grande cartello vicino all’ingresso del parcheggio. Luke guardò dove stava indicando. Appena sotto il logo del Burger King c’erano una serie di lettere nere su uno sfondo bianco. Messe insieme, le lettere formavano un fosco messaggio.
Si assume. Chiedere all’interno.
“Se non vuoi unirti a me, scommetto che là fuori ci saranno molte altre opportunità per te.”
Luke scosse la testa. Poi scoppiò a ridere.
“Questa è stata una strana giornata,” disse.
Don annuì. “Beh, sta per diventare ancora più strana. Ecco un’altra sorpresa. Questo è un regalo che non volevo darti all’ospedale perché gli ospedali sono posti tremendi. In particolare quelli dei veterani.”
Davanti all’auto c’era una bella e giovane donna dai lunghi capelli castani. Guardava verso Luke, con gli occhi pieni di lacrime. Indossava una giacca leggera, aperta a rivelare una maglietta premaman. La donna era molto incinta.
Del figlio di Luke.
Gli servì un istante per riconoscerla, che era una cosa che non avrebbe mai confessato a nessuno, nemmeno sotto la minaccia della tortura. La sua mente non aveva funzionato come doveva nelle ultime settimane, e lei era completamente fuori luogo in quel desolato parcheggio. Non si era aspettato di vederla lì. La sua presenza era irreale, ultraterrena.
Rebecca.
“Oh, mio Dio,” disse Luke.
“Già,” replicò Don. “Faresti meglio ad andare a salutarla prima che trovi qualcuno di meglio. Da queste parti? Non le servirebbe molto.”
“Perché… perché l’hai portata qui?”
Don scrollò le spalle. Si guardò intorno nel parcheggio del Burger King.
“È più romantico che incontrarla alla base.”
Poi Luke fu fuori dalla macchina. Gli sembrò di fluttuare verso di lei. Si abbracciarono e lui la tenne stretta a lungo. Non disse nulla. Non voleva lasciarla andare mai più.
Per la prima volta, Luke sentì le lacrime scivolargli lungo le guance. Fece un profondo respiro. Era così bello averla stretta a sé. Non parlò. Non riusciva a pensare a una sola parola da dire.
Rebecca alzò lo sguardo su di lui e gli asciugò le lacrime dal volto.
“Non è fantastico?” gli disse. “Don ha detto che lavorerai per lui.”
Luke annuì. Non riusciva ancora a parlare. Sembrava fosse tutto deciso, quindi. Don e Becca avevano preso la decisione per lui.
“Ti amo così tanto, Luke,” disse Becca. “Sono così felice che questa vita militare sia finita.”
CAPITOLO SEI
3 maggio
7:15 a.m. Eastern Daylight Time
Quartier generale del Gruppo di Intervento Speciale
McLean, Virginia—Periferia di Washington, DC
“Credo di avere qualcosa per te,” annunciò Don Morris.
Erano seduti nel nuovo ufficio di Don. Il posto stava cominciando ad assumere una forma. C’erano foto di sua moglie e dei suoi figli sulla scrivania, nastri e premi incorniciati sulle pareti. La scrivania stessa era un ampio ripiano lucido di quercia. Sopra c’erano una console fissa, uno schermo del computer, un cellulare, un telefono satellitare e non molto altro. Don non era un grande fan della documentazione cartacea.
“Qualcosa per sgranchirti le gambe. Mi sei sembrato un po’ nervoso da quando sei arrivato qui. Questo potrebbe aiutarti.”
Luke lo fissò. Era quasi come se gli avesse letto il pensiero. Don gli aveva fatto un favore, dandogli quel lavoro. Lo sapeva. Era stata un’ancora di salvezza gettata a un uomo che stava annegando. Ma Luke si stava già avvicinando all’uscita. Fino a quel momento non erano state altro che settimane di chiacchiere e sedentarietà. Era annoiato. Il rischio era che se fosse andato avanti troppo a lungo, sarebbe impazzito. Il lavoro di intelligence alla scrivania non faceva per lui. Era diventato abbondantemente ovvio.
“Sono tutto orecchi,” disse Luke.
Don fece cenno verso la porta aperta del suo ufficio. “Usciamo di qui.”
Luke lo seguì nello stretto corridoio fino a una luminosa sala conferenze dall’altro capo. Il piccolo complesso di uffici era stato una succursale per il Bureau dell’Edilizia Abitativa e dello Sviluppo Urbano fino a sei mesi prima. Don stava cercando di portare l’edificio nel ventesimo secolo.
Con quell’obiettivo in mente, un giovanotto alto con una coda di cavallo e strani occhiali da sole da aviatore stava appendendo un monitor a schermo piatto su una parete. Un altro monitor era già stato montato sulla parete opposta, unito tramite dei cavi a un pannello di controllo sul lungo tavolo conferenze. Il ragazzo portava una maglietta rossa, bianca e blu, jeans e scarpe da ginnastiche Converse All Stars alte rosse.
Luke quasi non lo guardò. Diede per scontato che fosse un tecnico appaltato dal governo, o magari un informatico dell’FBI.
“Luke, hai già incontrato Mark Swann?” chiese Don, togliendolo dall’impiccio. “È il nostro nuovo operatore e progettista di sistemi, responsabile della nostra rete di intelligence, Internet e connessioni satellitari… Mark avrà diverse mansioni, almeno per un po’. Mark Swann, questo è l’agente Luke Stone. Luke è il nostro primo agente operativo, anche se stiamo per aggiungerne un altro paio.”
Il giovane uomo si voltò. Era magro, con lunghe gambette simili a tubi. Sulla sua maglietta nei colori della bandiera americana c’era la scritta “Siamo il numero 31!”
Incontrò lo sguardo di Luke. L’agente lo studiò rapidamente. Era giovane, sulla ventina, ma sembrava persino più piccolo. Era sicuro di sé, al punto dell’arroganza. Era intelligente. Probabilmente era stato un nerd del computer al liceo. Lui e Luke sarebbero stati in dipartimenti diversi. La specialità del ragazzo era l’equipaggiamento: smontarlo, rimontarlo, farlo funzionare al meglio. Probabilmente non aveva mai partecipato a un momento di violenza in tutta la vita, né doveva aver mai assistito a niente del genere.
Si strinsero la mano.
“Siamo il numero trentuno, quindi?” disse Luke. “In cosa siamo i trentunesimi?”
Il ragazzo scrollò le spalle e sorrise.
“Non lo so, amico. Magari puoi tirare a indovinare.”
Luke trattenne una risata.
“Non mi viene in mente niente,” replicò. “Puoi darmi una mano?”
“Nell’assistenza sanitaria,” rispose lui. “Siamo al trentunesimo posto nell’assistenza sanitaria, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Però siamo al primo posto per le spese sanitarie, se vuoi qualcosa di cui essere orgoglioso.”