Il Ritorno. Морган Райс
fare quanti più danni potesse prima che loro la eliminassero, ma il metallo non cedette sotto le sue mani, neanche quando lei lo colpì tanto forte da far sanguinare le dita. Avrebbe dovuto sentire dolore, ma come tutto il resto, in quanto trasformata sembrava che ogni cosa accadesse come in un sogno, come se succedesse a qualcun altro.
L’unico problema era che quel qualcun altro era lei, e questo le avrebbe fatto male sul serio se Ignazio aveva ragione nel dire che l’avrebbe riportata indietro.
“Dove andiamo ad elaborare quello che abbiamo trovato?” chiese Leon ad Ignazio e Barnaby. “Ci serve solo un laboratorio, giusto?”
Luna tentò di distogliere lo sguardo. Non pensava che gli alieni stessero traendo conoscenze sui Sopravvissuti da lei, ma non aveva modo di saperlo per certo. Lupetto su quello aveva ragione: lei era una minaccia per tutti per ogni cosa che poteva vedere e sentire. Poteva attirare lì, come un faro, orde di controllati.
“Non basta un laboratorio qualsiasi,” disse Ignazio. “Ci servono attrezzature speciali. L’Università di sicuro le aveva, ma con l’attacco temo che possano essere sparite.”
“Allora dove?” chiese Leon.
Luna vide Ignazio scrollare le spalle e in quel momento capì che non c’era nessuna certezza. Ignazio aveva fatto intendere che il processo per riportarla indietro era semplice, ma ovviamente non sapeva effettivamente dove trovare quello che stavano cercando. Nessuno di loro ne aveva idea, e in qualche modo Luna sospettava di avere solo un tempo molto limitato prima che tutta se stessa scomparisse per sempre. Anche in quel momento poteva sentire il peso dell’infezione aliena che la opprimeva, cercando di schiacciare la sua essenza. Era come se dietro ci fosse nascosta una mano che si chiudeva lentamente su di lei per far succedere questa cosa.
“Ci sono dei posti che potrebbero avere ciò che ci serve,” disse Barnaby, indicando verso la città come una guida turistica. “Ci sono degli edifici industriali da quella parte, e se riusciamo a trovare un impianto chimico, lì ci sarà tutto quello che ci serve. Oppure possiamo andare da quella parte e vedere negli edifici più accademici. Oppure possiamo esplorare meglio l’interno dell’università e sperare che qualcosa sia sopravvissuto.”
Leon pensò per un momento o due. Luna sapeva cosa avrebbe scelto lei, optando per l’opzione più vicina, anche se era la meno probabile. Voleva che facessero questa cosa il prima possibile, e non solo perché non voleva stare più del necessario nella condizione in cui si trovava. Sapeva anche che ogni secondo che lei passava in quello stato era una grossa minaccia per gli altri.
Sembrava però che Leon la pensasse in modo diverso, perché indicò verso le fabbriche.
“Quelle sono la nostra migliore possibilità,” gridò ai Sopravvissuti che lo circondavano. “Ignazio e Barnaby vi diranno esattamente ciò che stanno cercando. Ci serve la giusta attrezzatura per salvare Luna, e per salvare altri trasformati che potremmo trovare.”
Il gruppo si riunì attorno a loro. Erano così tanti adesso, praticamente un esercito, anche se in quel caso ci sarebbe dovuta essere della disciplina, piuttosto che quell’avanzare liberamente in avanti, tutti insieme. Marciarono verso le fabbriche, andando ora a piedi, dato che l’autobus non avrebbe potuto muoversi tra le macerie dovute alla battaglia. Trascinarono Luna con il trailer che la conteneva, le ruote che cigolavano a ogni giro, la struttura della gabbia che sobbalzava sul terreno irregolare. Le sembrava di essere un reperto in mostra in un museo, o forse un prigioniero in una qualche antica guerra, messa in mostra prima della morte.
Non morirò, disse a se stessa, tentando di convincersene e di crederci. Si teneva aggrappata al pensiero di poter rivedere Kevin, l’unico punto saldo e certo mentre tanti altri elementi e ricordi le scivolavano via.
La processione andò dritta in direzione delle fabbriche e Luna doveva solo sperare che sarebbero arrivati in tempo, prima che lei perdesse ogni pezzo di sé e non potesse più stare aggrappata ai pensieri di Kevin.
CAPITOLO QUATTRO
Kevin stava camminando in mezzo a posti che conosceva, posti in cui era stato. Vi stava girovagando in strane combinazioni che non avevano senso, passando da un luogo all’altro con facilità. Stava camminando sulla navicella madre dell’Alveare su cui era stato, e le strade mutavano trasformandosi in quelle di Mountain View, dove era cresciuto. Passò attraverso una porta e si trovò nella foresta pluviale colombiana, circondato da militari pronti a combattere per il diritto di controllare la capsula dell’Alveare.
Ogni passo lo portava in un momento diverso, mutando e cambiando, cosicché era difficile tenere traccia di tutti. Passò dai momenti nella sala dei segnali, dove decifrava messaggi inviati alla Terra, al primo istante in cui aveva visto la gente trasformata in mostri, quando aveva capito che era troppo tardi per fermare l’invasione…
… all’istante in cui il dottore gli aveva detto che stava morendo.
Kevin divenne allora meno cosciente del proprio corpo: si sentiva così lontano che era come se vi stesse fluttuando sopra. Poteva sentire il dolore alla testa, così forte che pareva fargliela esplodere. Il tremore del corpo sembrava essersi impossessato di lui completamente, e gli pareva impossibile essere capace di muoversi in tutti quei posti.
Non poteva essere, lo sapeva. Stava sognando, stava ricordando, e stava morendo.
Non si dovrebbe dire a un ragazzo di tredici anni che sta morendo. Ricordò di averlo pensato allora, quando tutto questo aveva avuto inizio, nello studio dello specialista. Ora nessuno glielo stava dicendo: Kevin lo sapeva e basta, come sapeva anche cosa significasse un segnale lontano, o la voce di Luna.
Poteva sentire la malattia progredire dentro di lui. Era stata frenata per un breve periodo quando si era trovato parte dell’Alveare, ma era subito ricomparsa quando si era liberato.
Altri momenti attraversarono i suoi sogni: la traversata lungo la costa con Chloe e Luna, il tempo passato nel bunker, insieme in un angolo del dormitorio per quella breve notte in cui erano stati al sicuro. Kevin non era sicuro se fosse solo un sogno o quella cosa che aveva sentito, di quando la vita ti passava davanti agli occhi prima della morte, o qualcosa del genere.
Altro dolore lo pervase, questa volta come una morsa al cuore, una pressione che lo schiacciava e lo teneva fermo, tanto che Kevin non ne poté più sentire il battito. Era un genere di dolore che non avrebbe mai creduto possibile, il genere di dolore che sembrava avvolgere ogni cosa contemporaneamente.
C’erano così tante immagini nei suoi sogni, così tante cose che aveva fatto e che forse non avrebbe mai avuto l’occasione di fare se il mondo fosse stato un posto diverso. Se non avesse avuto il suo potere, l’Alveare sarebbe comunque arrivato? Lui sarebbe stato in tutti quei posti, avrebbe visto tutte quelle cose?
Per quante cose Kevin avesse fatto, non era stato abbastanza. Lui non voleva morire. Non avrebbe mai voluto morire. Non era giusto.
“Dai, dovete fare qualcosa!”
Le parole sembrarono giungere da molto lontano, era come se la voce di Chloe passasse attraverso un sottile velo, comunque troppo spesso per permetterle di arrivare pienamente a lui.
“Ci stiamo provando,” rispose una voce, e anche se Kevin non poté riconoscere di chi fosse, capì che si trattava di uno degli Ilari. “Se avessimo avuto il tempo per studiare ciò che gli stava succedendo…”
“Non c’è tempo,” disse il generale s’Lara. “Fate quello che bisogna fare.”
“Aspettate,” tentò di dire Kevin, ma le parole non gli uscirono di bocca. “Cosa intendete dire?”
Il dolore lo colpì, e se prima pensava di sapere cosa volesse dire dolore, questo era cento volte peggiore. Sembrava scorrere contemporaneamente in ogni singola cellula, come se bruciasse e congelasse allo stesso tempo, come se tirasse e schiacciasse. Gli sembrava che lo stesse facendo a pezzi, atomo per atomo, ricomponendolo poi un pezzo alla volta. Ogni cellula era leggermente diversa, leggermente modificata, e ora sentì un’ondata fresca pervaderlo, trasformandolo al suo passaggio.