Operazione Presidente. Джек Марс
bollettino meteorologico. Era arrivato in elicottero con un pilota privato, e non aveva presentato un itinerario all’assistenza del parco. Nessuno aveva la più pallida idea che lui fosse lì tranne il pilota, e gli aveva detto che l’avrebbe chiamato una volta finito.
“Sto cercando di uccidermi?” disse a voce alta. Rimase sconvolto dal suono della sua voce.
Conosceva la risposta. No. Non necessariamente. Se così fosse stato, ok, ma non stava cercando attivamente di morire. Si potrebbe dire che stava sfidando la sorte, accollandosi rischi assurdi, e che lo stava facendo dalla morte di Becca.
Lui voleva vivere. Voleva solo essere più bravo, a vivere. Se non ci riusciva…
Come marito era stato un fallimento. Come padre era un fallimento. La sua carriera era finita a quarantun anni – era uscito dal lavoro governativo due anni prima e non aveva cercato nient’altro. Non controllava i conti in banca da un po’, ma era ragionevole presumere che avesse quasi finito i soldi. Praticamente l’unica cosa in cui era bravo era sopravvivere in ambienti rigidi e impietosi. E uccidere – era bravo anche in questo. Per il resto era stato un totale e miserabile fallimento.
Poteva morire su quella montagna, ma la prospettiva non gli portava terrore.
Era spento, vuoto… intorpidito.
“Devi cominciare a pensare a come andartene di qui,” disse, ma erano solo chiacchiere – poteva andarsene, oppure no. Sarebbe stato un bel posto dove morire, nonché una cosa semplice da fare. Tutto ciò che doveva fare era… nulla. Alla fine – presto – avrebbe finito il cibo. Bere neve sciolta non lo avrebbe sostenuto a lungo. Gradualmente si sarebbe fatto più debole, finché non gli sarebbe stato impossibile scendere dalla montagna da solo. Sarebbe morto di fame. A un certo punto si sarebbe appisolato per non svegliarsi più.
Come fare a decidere? Come fare a decidere?
Di colpo urlò, inconsapevole del gesto finché non emise suono.
“Dammi un segno! Mostrami cosa devo fare!”
Proprio allora il telefono fece una cosa che non faceva da molto tempo – squillò. Il rumore lo fece saltare, e il cuore perse un colpo. La suoneria era il più forte possibile. Il motivetto era una canzone rock che suo figlio Gunner gli aveva messo nel telefono due anni prima. Luke non l’aveva mai cambiata. Anzi, l’aveva proprio tenuta di proposito. Faceva tesoro di quella canzone come dell’ultimo collegamento tra di loro.
Guardò il telefono. Gli ricordò una cosa viva, una vipera velenosa – si doveva fare attenzione nel maneggiarlo. Lo raccolse, guardò il numero e rispose.
“Pronto?”
Il rumore era confuso. Naturalmente la spessa tenda stava bloccando il segnale del satellite. Doveva uscire per rispondere a quella telefonata – un pensiero poco bello.
“Devo richiamare!” urlò nel microfono.
Persino muovendosi rapidamente, ci vollero molti minuti per assemblare lo strato di abiti necessario e vestirsi. Fuori faceva troppo freddo per vestirsi a metà. Tirò giù la zip della tenda, strisciò fuori dalla minuscola entrata e si spinse fuori nelle intemperie. Il vento e il pungente ghiaccio lo colpirono in volto tutto in una volta. Avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.
Appese un faretto lampeggiante alla struttura della tenda e incespicando si allontanò dal rumore del tessuto che sbatteva nella neve profonda. Portò con sé una torcia potente, girandosi ogni qualche metro a segnare l’ubicazione del campo. Non c’erano luci là fuori, e la visibilità era di circa venti metri. La neve e il ghiaccio gli vorticavano attorno.
Premette il pulsante per chiamare e portò il telefono all’interno del cappuccio del parka. Rimase in piedi come una statua, in ascolto dei segnali acustici mentre il telefono stringeva la mano al satellite e tentava di avviare la chiamata.
“Stone?” disse una profonda voce maschile.
“Sì.”
“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”
Fu un’attesa breve.
“Luke?” disse una voce femminile.
“Signora presidente,” urlò Luke. Non poté evitare di sorridere. “Da quanto tempo.”
“Troppo,” disse Susan Hopkins.
“A cosa devo l’onore?”
“Ho dei problemi,” disse lei. “Devi venire.”
Luke ci pensò per un attimo. “Oh, sono lontanissimo da tutto al momento. Sarà un po’ difficile arrivare…”
“Non importa,” disse Susan. “Ovunque tu sia, mando un aereo. O un elicottero. Qualsiasi cosa ti serva.”
“Un grosso e amichevole San Bernardo sarebbe un buon inizio,” disse Luke. “Con uno di quei barilotti di whiskey al collo.”
“Fatto. Ti porta anche un panino, nel caso avessi fame.”
Luke quasi rise. “Fame è un eufemismo. E quando ho finito di mangiare, avrò davvero bisogno di quell’elicottero.”
“Fatto anche questo. Prima che riappendiamo, ti passo qualcuno che possa prendere le tue coordinate e che mandi qualcuno a prenderti. Ci facciamo in quattro, qua. Crediamo nel servizio porta a porta.”
Luke dovette ammettere di sentire un rapido bagliore di sollievo. Pochi momenti prima non vedeva modo di andarsene da quella montagna, nessuna seconda chance per la vita. Adesso ne aveva una. Prima non lo sapeva se voleva morire o vivere – ma adesso lo sapeva con sicurezza. Lo capì dall’accelerazione del sangue quando Susan menzionò un modo per andarsene di lì. Intellettualmente, ancora non lo sapeva, ma visceralmente, il suo corpo glielo diceva.
Voleva vivere.
Nonostante tutto l’inferno che aveva passato, in qualche modo voleva vivere.
“Che succede?” disse Luke.
Susan esitò, e aveva la voce leggermente scossa. Lui lo sentì anche attraverso il vento che gli soffiava attorno. “Ieri ci sono state le elezioni.”
Luke prese in considerazione la cosa. Era disconnesso da tanto tempo che non aveva idea di che giorno fosse. Da qualche parte, lontanissimo, in un altro mondo, la gente faceva ancora campagna elettorale per la carica. Le ruote del governo continuavano a girare. C’erano politiche da discutere e importanti decisioni da prendere. C’era copertura mediatica, e mezzibusti che si urlavano addosso l’uno con l’altro. Era un po’ che non pensava a queste cose. Anzi, si era quasi dimenticato della loro esistenza.
Tra loro passò una lunga pausa.
“Luke,” disse Susan. “Ho perso le elezioni.”
CAPITOLO TRE
8:03 ora della costa orientale
Studio Ovale
Casa Bianca, Washington DC
“Che malefico bastardo,” disse qualcuno nella stanza. “Ha rubato, chiaro e semplice.”
Susan Hopkins era in piedi nel centro dell’ufficio e fissava il grande pannello televisivo piatto sulla parete. Era ancora intorpidita, quasi sotto shock. Anche se osservava con attenzione, aveva problemi a formare dei pensieri chiari. Era troppo da processare.
Era ben consapevole del completo che indossava. Era blu con una camicia elegante bianca. Era un po’ scomodo. Un tempo le era stato bene – anzi, era stato fatto su misura perché le andasse alla perfezione – ma oggi era chiaro che il suo corpo stava cambiando. Adesso l’abito le cadeva male. Le spalline della giacca erano troppo allentate, i pantaloni troppo stretti. Le spalline del reggiseno le pizzicavano la carne della schiena.
Troppi pasti a tarda notte. Troppo poco sonno. Troppa poca ginnastica.
Sospirò pesantemente. Quel lavoro la stava uccidendo.