Il ritorno di Zero. Джек Марс
lei si dissolveva davanti ai suoi occhi.
E rimase solo.
*
“Sara!”
Zero si svegliò di soprassalto, gemendo. Aveva un forte mal di testa. Era solo un sogno, un incubo. Un incubo che aveva avuto già mille volte prima.
Era andata sempre all'incirca così.
Zero aveva avuto un incredibile successo. Aveva evitato un tentato omicidio presidenziale. Aveva fermato una guerra prima che scoppiasse. Aveva scoperto una cospirazione. E poi lui e le sue ragazze erano andati al Plaza; nessuno di loro voleva tornare ad Alexandria, in Virginia. Erano successe troppe cose lì. Troppe morti.
Era lì che glielo aveva detto. Meritavano di conoscere la verità.
Ma poi se ne erano andate.
Era stato... quanto tempo prima? Quasi diciotto mesi, se ricordava bene. Un anno e mezzo fa. Tuttavia, quel sogno lo affliggeva quasi tutte le sere. A volte le ragazze evaporavano davanti ai suoi occhi. A volte urlavano contro di lui, maledicendolo con parole molto più dure di quelle che realmente avevano utilizzato. Altre volte se ne erano andate in silenzio, e quando le aveva raggiunte nel corridoio erano già svanite.
Sebbene il finale variasse, le conseguenze nella vita reale erano le stesse. Si svegliò dall'incubo con un forte mal di testa e il cupo, disperato ricordo che se ne erano andate davvero.
Zero si stiracchiò e si alzò dal divano. Non ricordava di essersi addormentato, ma non se ne stupì. Di notte non dormiva bene, e non solo per l'incubo delle sue figlie. Un anno e mezzo fa aveva recuperato i suoi ricordi, i suoi ricordi completi come Agente Zero, e con loro erano arrivati incubi terribili. I ricordi si facevano strada nel suo subconscio mentre dormiva o cercava di farlo. Scene atroci di tortura. Bombe sganciate su edifici. L'impatto dei proiettili su un cranio umano.
La cosa peggiore era che non sapeva se fossero reali o no. Il dottor Guyer, il geniale neurologo svizzero che lo aveva aiutato a recuperare i ricordi, lo aveva avvertito che alcuni ricordi avrebbero potuto non essere reali, ma un prodotto del suo sistema limbico che manifestava fantasie, sospetti e incubi come realtà.
Anche la realtà gli sembrava a tratti immaginazione.
Zero arrancò in cucina per prendere un bicchiere d'acqua, scalzo e intontito, quando suonò il campanello. Sobbalzò al suono, mentre ogni suo muscolo si irrigidì all'istante. Era ancora piuttosto nervoso, anche dopo tanto tempo. Lanciò un'occhiata all'orologio digitale sul fornello. Erano quasi le quattro e mezzo. Poteva essere solo una persona.
Lui aprì la porta e forzò un sorriso per accogliere il suo vecchio amico. “Giusto in tempo”.
Alan Reidigger sorrise sollevando un pacco di sei birre e tenendolo tra il pollice e l'indice. “Per la tua sessione di terapia settimanale”.
Zero sbuffò e si fece da parte. “Dai, ne usciremo insieme”.
Attraversò la casa e uscì su un patio da una porta a vetri. L'aria di metà ottobre non era ancora fredda, ma abbastanza pungente da ricordargli che era scalzo. Si sedettero su un paio di sedie a sdraio mentre Alan apriva due lattine e ne passava una a Zero.
Lui guardò l'etichetta, perplesso. “Che cos'è?”
“Non lo so. Il ragazzo del negozio ha dato un'occhiata alla mia barba e alla camicia di flanella e ha detto che mi sarebbe piaciuta”. Alan ridacchiò, fece scattare la linguetta e bevve un lungo sorso. Si irrigidì, stupito. “È ... diversa. O forse sto solo invecchiando”. Si voltò cupamente verso Zero. “Allora. Come stai?”
Come stai. All'improvviso gli sembrò una domanda così strana. Se qualcuno diverso da Alan lo avesse chiesto, lo avrebbe riconosciuto come una formalità e avrebbe risposto con un semplice e frettoloso “Bene, e tu?” Ma sapeva che Alan voleva davvero sapere come stava.
Ma non sapeva come rispondere. Tutto era cambiato così tanto in diciotto mesi; non solo nella vita personale di Zero, ma anche nel mondo. Gli Stati Uniti avevano evitato una guerra con l'Iran e gli stati vicini, ma le tensioni erano rimaste alte. Apparentemente il governo americano si era ripreso dall'infiltrazione di cospiratori e dall'influenza russa, solamente attraverso i numerosi mandati di arresto. Il presidente Eli Pierson era rimasto in carica per altri sette mesi dopo l'attentato alla sua vita, ma era stato sconfitto alle successive elezioni dal candidato democratico. Fu una vittoria facile dopo che fu rivelato che il gabinetto di Pierson era un vero e proprio nido di serpi.
Ma a Zero non importava molto. Non era più coinvolto in nulla di tutto ciò. Non aveva nemmeno un'opinione sul nuovo presidente. Sapeva a malapena cosa stesse succedendo nel mondo; evitava le notizie ogni volta che era possibile. Adesso era solo un cittadino. Qualunque cosa si stesse svolgendo nell'ombra, se ne sarebbe lavato le mani.
“Sto bene”.
Indugiò.
“Davvero. Sto bene”.
Alan bevve un altro sorso, visibilmente perplesso ma senza ribattere. “E Maria?”
Un lieve sorriso attraversò le labbra di Zero. “Se la sta cavando bene”. Ed era vero. Stava ricoprendo la sua nuova posizione con professionalità. Dopo la scoperta della cospirazione, gli organi interni della CIA erano stati completamente rinnovati; David Barren, membro di alto rango del Consiglio di sicurezza nazionale e padre di Maria, era stato nominato direttore ad interim dell'agenzia e aveva supervisionato personalmente il controllo di ogni singola persona fino a quando non è stato nominato un nuovo direttore, un ex direttore della NSA di nome Edward Shaw.
Maria Johansson era stata nominata vicedirettore della divisione Attività speciali, un lavoro precedentemente ricoperto dall'ormai defunto Shawn Cartwright, il vecchio capo di Zero. A sua volta lei aveva nominato Todd Strickland come Responsabile degli Agenti Speciali, una posizione precedentemente ricoperta da Kent Steele.
Ed era molto capace nel suo nuovo incarico. Non ci sarebbe stata corruzione sotto la sua supervisione, non sarebbero stati assunti agenti precedentemente espulsi come Jason Carver, né cospiratori come Ashleigh Riker. Era ovvio, tuttavia, che le mancava il lavoro sul campo; non accadeva spesso, ma a volte accompagnava la sua squadra in qualche operazione.
Zero, d'altra parte, non era tornato al lavoro. Né alla CIA, e nemmeno all'insegnamento. Non era tornato a nulla.
“Come va il negozio?” chiese ad Alan, cercando di cambiare argomento.
“Mi tiene impegnato”, rispose Reidigger con noncuranza. Gestiva il Garage della Terza Strada, che nonostante le esperienze di Alan nello spionaggio e nelle operazioni segrete era, di fatto, un'autofficina. “Non c'è molto da dire. A che punto è il seminterrato?”
Zero alzò gli occhi al cielo. “È un lavoro in corso”. Dopo aver litigato con le sue ragazze, non riusciva a stare da solo nella casa di Alessandria. L'aveva messa sul mercato e aveva accettato la prima offerta che gli era stata fatta. A quel punto lui e Maria avevano reso ufficiale la loro relazione, e anche lei voleva cambiare residenza, quindi avevano comprato una piccola casa nella periferia della città di Langley, non lontano dal quartier generale della CIA. Era un “bungalow per artigiani”, così lo aveva chiamato l'agente immobiliare. Era un posto semplice, adatto ad entrambi. Una delle tante cose che lui e Maria avevano in comune era il desiderio di semplicità. Avrebbero potuto permettersi qualcosa di più grande, più moderno, ma quella piccola casa era perfetta per loro. Era accogliente, calda, aveva una grande vetrata sul retro, un soppalco per la suite padronale e un seminterrato incompiuto, con le pareti e il pavimento ancora in cemento grezzo.
Circa quattro mesi prima, all'inizio dell'estate, Zero aveva avuto l'idea di finire il seminterrato, trasformandolo in spazio abitabile. Da allora aveva solamente passato dell'isolante rosa.
Ultimamente, il solo pensiero di tornare laggiù lo sfiniva.
“Se vuoi che ti venga a dare una mano, chiamami”, disse Alan.
“Va bene”. Alan gli faceva la stessa proposta ogni settimana. “Roma non è stata costruita in un giorno, lo