Il ritorno di Zero. Джек Марс

Il ritorno di Zero - Джек Марс


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in mano sembrava leggera, troppo leggera. La scosse e si sorprese rendendosi conto che era vuota. Non ricordava nemmeno di aver bevuto un sorso, di averla anche solo assaggiata. Posò la lattina sul patio accanto a lui e ne prese un'altra.

      “Attento”, avvertì Reidigger con un sorriso. Indicò l'addome di zero che si stava facendo sempre meno tonico.

      “Già”. Aveva guadagnato qualche chilo nel suo semi-pensionamento. Cinque, forse sei. Non ne era sicuro e certamente non sarebbe salito su una bilancia per verificarlo. “Senti chi parla”.

      Reidigger rise. Era molto diverso dall'agente dalla faccia tonda che Zero aveva conosciuto quattro anni prima, con il suo aspetto da ragazzo e il torso incredibilmente imponente. Per camuffarsi dopo la sua presunta morte e per assumere le sembianze di un meccanico di nome Mitch, Alan aveva messo su almeno venti chili, si era fatto crescere una folta barba macchiata di grigio e indossava perennemente un cappello da camionista abbassato sulla fronte, macchiato di sudore e di olio per motori.

      Il berretto era diventato un accessorio integrante della sua persona, tanto che Zero si chiedeva se lo indossasse a letto.

      “Che? Questo?” Reidigger ridacchiò di nuovo e si diede una pacca sullo stomaco. “Questo è tutto muscolo. Sai, vado in palestra due volte a settimana. Hanno un ring. I ragazzi adorano prendersi gioco dei più anziani. Prima che io li metta a terra”. Bevve un sorso e aggiunse: “Dovresti venire qualche volta. Di solito vado …”

      “Martedì e giovedì”, Zero lo interruppe. Alan gli faceva anche quella proposta ogni settimana.

      Apprezzava lo sforzo. Apprezzava il fatto che Alan passasse così spesso a sedersi nel patio con il suo vecchio amico. Apprezzava le visite e i tentativi di portarlo fuori di casa che diventavano sempre più spensierati ad ogni visita.

      La verità era che senza la CIA o l'insegnamento o le sue figlie in giro, non si sentiva sé stesso e aveva portato a una sorta di malattia che si insediava nel suo cervello, un malessere generale che non riusciva a superare.

      La porta a vetri scorrevole si aprì all'improvviso, ed entrambi si voltarono mentre Maria li raggiungeva sotto il sole di ottobre. Indossava un elegante blazer bianco con pantaloni neri e una sottile collana d'oro, i capelli biondi le ricadevano sulle spalle e il mascara scuro metteva in risalto i suoi occhi grigi.

      Fu strano, ma per un breve istante Zero provò gelosia. Dove lui si era fermato, lei era rifiorita. Ma soppresse questa sensazione nella palude oscura delle sue emozioni e si disse che era contento di vederla.

      “Buon pomeriggio, ragazzi”, disse con un sorriso. Sembrava di buon umore; il suo umore all'arrivo a casa dal lavoro tendeva a variare quanto i suoi orari. “Alan, è bello rivederti”. Si chinò per abbracciarlo.

      “Sbalordita”, non c'era altra parola per descrivere la reazione di Maria quando Zero le aveva detto che Alan non solo era ancora vivo, ma che viveva nascosto in un garage a meno di trenta minuti di Langley. Ma aveva accolto subito la notizia con piacere. Dargli un pugno alla spalla e rimproverarlo con un “avresti dovuto dircelo!” sembrava essere stato sufficiente a riportarla alla realtà.

      “Ciao, Kent”. Lo baciò prima di prendere una delle sei birre di Alan e unirsi a loro. “Tutto bene?”

      “Sì”. Lui annuì. “Tutto bene”. Non voleva aggiungere nulla, perché tutto quello che avrebbe potuto raccontarle era che aveva trascorso la giornata a guardare vecchi film, a fare un sonnellino e a pensare vagamente di tornare a lavorare al seminterrato incompiuto. “E tu?”

      Lei alzò le spalle. “Tutto abbastanza bene”. Tendeva a non parlare troppo del lavoro con lui, non solo per ragioni di sicurezza, ma anche per la paura inespressa (almeno così Zero supponeva) di poter risvegliare in lui ricordi o di invogliarlo a rimettersi in gioco. Sembrava che a lei piacesse la sua situazione. Sebbene quelli fossero tutt'altro che sospetti.

      “Kent”, disse, “non dimenticare che abbiamo programmi per la cena”.

      Lui sorrise. “Certamente”. Non si era dimenticato dell'ospite di quella sera. Ma stava cercando con tutte le sue forze di non pensarci.

      Kent.

      Era l'unica a chiamarlo ancora in quel modo.

      Agente Kent Steele era il suo pseudonimo nella CIA, ma ora non era altro che un ricordo. Zero era il segnale per chiamarlo, era stato inventato per gioco da Alan Reidigger, che lo chiamava ancora Zero. E da quando aveva recuperato i suoi ricordi, quello era il nome che sentiva più suo. Ma ormai non era più né Kent né Zero. Non era più nemmeno il professor Lawson. Al diavolo, si sentiva a malapena sé stesso, il suo vero io, Reid Lawson, padre di due figlie e professore di storia e agente segreto della CIA. Anche se erano passati diciotto mesi, ricordava ancora amaramente gli oscuri cospiratori che trascinarono il suo nome nel fango, rilasciando la sua immagine ai media, chiamandolo terrorista e tentando di incolparlo del tentato assassinio. Ovviamente, era stato completamente scagionato da quelle accuse, e non aveva idea se qualcuno lo ricordasse. Ma lui sì. E ora quel nome gli sembrava quello di uno sconosciuto. Evitava di riferirsi a sé stesso o di farsi riconoscere come Reid Lawson ogni volta che era possibile, la casa, le bollette e persino le macchine erano tutte a nome di Maria. Non arrivava alcuna lettera con il suo nome sopra. Nessuno aveva mai chiamato per chiedere di Reid.

      O di Kent.

      O di Zero.

      O di papà.

      Quindi chi diavolo sono io?

      Non lo sapeva. Ma sapeva che avrebbe dovuto scoprirlo da solo, perché la vita che stava conducendo non era una vita degna di essere vissuta.

      CAPITOLO DUE

      Zero era contento di non doverne parlare. Ma Alan sapeva che non era il caso di chiedere delle ragazze.

      Reidigger rimase lì per circa quarantacinque minuti prima di alzarsi dalla sedia a sdraio, allungarsi e nel suo solito modo, annunciare che avrebbe dovuto “tornare sulla sua vecchia pista”. Zero gli diede un breve abbraccio e fece un cenno con la mano mentre usciva con il suo camioncino dal vialetto, ringraziandolo silenziosamente per non aver chiesto delle sue figlie, perché la verità era che se Alan avesse chiesto come stavano, Zero non avrebbe potuto rispondere.

      Trovò Maria in cucina, con indosso un grembiule sopra i suoi abiti da lavoro mentre tagliava una cipolla. “È stata piacevole la visita?”

      “Sì”.

      Silenzio. Solo il suono ritmato del coltello contro il tagliere.

      “Sei pronto per stasera?” chiese dopo un lungo momento.

      Lui annuì. “Sì. Certamente”. Ma non lo era. “Che cosa stai facendo?”

      “Un pasticcio”. Versò il contenuto del tagliere in una grande pentola sul fornello che conteneva già kielbasa, cavolo e altre verdure. “È una ricetta polacca”.

      Zero si accigliò. “Un pasticcio. Da quando sai cucinare il pasticcio?”

      “Ho imparato da mia nonna”. Fece lei con un sorrisetto. “Ci sono ancora molte cose che non sai di me, signor Steele”.

      “Evidentemente”. Esitò, chiedendosi come affrontare meglio l'argomento, e poi decise che la cosa migliore era farlo in modo diretto. "Uhm... ehi... Stasera, pensi che potresti provare a non chiamarmi Kent?”

      Maria si fermò tenendo il coltello sospeso su un fungo secco. Si accigliò, ma annuì. “Ok. Come vuoi che ti chiami? Reid?”

      “Io...” Stava per rispondere di sì, ma poi si rese conto che nemmeno quell'opzione gli piaceva. “Non lo so”. Forse, pensò, avrebbe dovuto evitare di chiamarlo.

      “Uhm”. Dalla sua espressione era evidente che era preoccupata, voleva a tutti i costi sapere cosa succedesse nella sua testa, ma non era il momento giusto per indagare ulteriormente. “Che ne dici se ti chiamo 'biscottino'?”

      “Molto divertente”. Ma


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