Dossier Zero. Джек Марс
Rais e dai trafficanti slavi. Ma Sara non si sarebbe aperta con nessuno, non ne voleva parlare.
“Ehi, topolina, ti andrebbe qualcosa da mangiare?” La chiamò Maya. “Potrei fare del formaggio alla piastra? Con il pomodoro. E pancetta…” Schioccò le labbra, sperando di far sorridere la sorellina.
Ma Sara si limitò a scuotere la testa. “Non ho fame”.
“Ok. Vuoi parlare di qualcosa?”
“No”.
Un'ondata di frustrazione la investì, ma Maya non lo diede a vedere. Doveva essere paziente. Anche lei era rimasta colpita dagli eventi che avevano vissuto, ma la sua reazione era stata rabbia e desiderio di riscatto. Aveva detto a suo padre che il suo piano era quello di diventare lei stessa un agente della CIA, e non era semplicemente enfasi adolescenziale. Era molto seria al riguardo.
“Se ti venisse voglia di parlare”, disse a sua sorella. “io ci sono. Lo sai, vero?”
Sara la guardò. Sulle sue labbra sembrò comparire un lieve sorriso, ma poi i suoi occhi si spalancarono e si alzò di scatto. “Senti?”
Maya ascoltò attentamente. Lei lo sentì; il suono di un potente motore che rombava nelle vicinanze. Quindi si interruppe bruscamente.
“Rimani qui”. Si affrettò a tornare di nuovo nell'atrio e ancora una volta scostò le tende oscuranti. Un SUV argentato era entrato nel loro vialetto. Il suo battito accelerò quando uscirono quattro uomini. Due di loro indossavano completi; gli altri erano vestiti completamente di nero, indossavano giubbotti tattici e stivali da combattimento.
Anche da una certa distanza Maya riuscì a vedere le insegne blasonate sulle maniche. I due uomini vestiti di nero appartenevano alla stessa organizzazione che aveva tentato di rapirle in Svizzera. Watson li aveva chiamati la Divisione.
Maya si precipitò in cucina, infilandosi le calze e tirò fuori un coltello da bistecca dal blocco di bambù sul bancone. Sara si alzò immediatamente dal divano.
“Vai di sotto”. Maya porse il coltello a sua sorella. “Entra nella stanza di emergenza. Ti raggiungo subito”.
Il campanello squillò.
“Non rispondere”, supplicò Sara. “Vieni con me”.
“Non ho intenzione di aprire la porta”, promise Maya. “Voglio solo sapere cosa vogliono. Vai. Chiudi la porta. Non aspettarmi”.
Sara prese il coltello e corse giù per i gradini del seminterrato. Maya si avvicinò con cautela alla porta d'ingresso e sbirciò dallo spioncino. I due uomini in giacca e cravatta erano proprio là fuori.
Dove sono andati gli altri due? si chiese. Alla porta sul retro, molto probabilmente.
Maya sussultò quando uno dei due uomini bussò rapidamente alla porta. Poi parlò. “Maya Lawson?” Sollevò un distintivo in un portadocumenti in pelle mentre lei sbirciava attraverso lo spioncino. “Agente Coulter, FBI. Dobbiamo farti alcune domande su tuo padre”.
La sua mente correva furiosamente. Non avrebbe risposto. Ma avrebbero tentato di entrare con la forza? Avrebbe dovuto dire qualcosa o fingere di non essere in casa?
“Signorina Lawson?” disse di nuovo l'agente. “Preferiremmo davvero concludere tutto nel modo più semplice".
Lunghe ombre danzavano sul pavimento dell'atrio nel sole al tramonto. Maya alzò rapidamente lo sguardo e vide due ombre che passavano dall'ingresso posteriore, facendosi strada attraverso una porta scorrevole in vetro che conduceva a un piccolo patio. Erano gli altri due uomini, quelli della divisione, che si aggiravano dietro la casa.
“Signorina. Lawson”, gridò di nuovo l'uomo. “Questo è l'ultimo avvertimento. Per favore, apra la porta”.
Maya fece un respiro profondo. “Mio padre non è qui”, rispose. “E io sono minorenne. Sarà necessario che torniate”.
Sbirciò di nuovo attraverso lo spioncino per vedere ghignare l'agente dell'FBI. “Signorina. Lawson, penso che lei abbia frainteso la situazione”. Si rivolse al suo compagno, un uomo più alto e più robusto. “Sfonda la porta”.
Maya inspirò a fondo e fece diversi passi indietro. Lo stipite della porta si spezzò, schegge di legno sfrecciarono nell'aria e la porta d'ingresso si aprì.
I due agenti avanzarono nell'atrio. Maya si sentì immobilizzata. Si chiese se sarebbe riuscita a raggiungere il seminterrato e arrivare in tempo alla stanza di emergenza. Ma se Sara aveva fatto come le aveva detto Maya e aveva già chiuso la porta, non sarebbero riuscite a richiuderla prima che gli agenti le raggiungessero.
Il suo sguardo doveva essere volato verso la porta del seminterrato, perché il più vicino dei due agenti sorrise. “Che ne dici di restare lì, signorina?” L'agente che aveva parlato aveva i capelli color sabbia e una faccia che sarebbe sembrata amichevole e fanciullesca se non avessero appena fatto irruzione in casa con la forza. Alzò le mani vuote. “Non siamo armati. Non vogliamo fare del male a te o a tua sorella”.
“Non vi credo”, rispose Maya. Si guardò rapidamente alle spalle, solo per mezzo secondo, per vedere le ombre dei due uomini vestiti di nero che camminavano avanti e indietro sul patio.
All'improvviso una sirena risuonò in tutta la casa e tutti e tre si guardarono attorno sconcertati. Maya impiegò un momento a rendersi conto che si trattava del loro sistema di allarme, che veniva attivato quando la porta si apriva ed era programmato per scattare se entro sessanta secondi non veniva inserito il codice di sicurezza.
La polizia, pensò speranzosa. Arriverà la polizia.
“Spegnilo!” le urlò l'agente. Ma lei non si mosse.
Poi, un vetro si frantumò dietro di lei. Maya sobbalzò e si girò istintivamente mentre la porta scorrevole sul retro veniva frantumata dall'esterno. Uno degli uomini vestiti di nero entrò.
Non si fermò a pensare, ma un ricordo le balenò in testa in un attimo: l'hotel a Engelberg, in Svizzera. L'uomo della divisione si era finto un agente della CIA e aveva sfondato la porta, per attaccarla.
Maya si girò di nuovo rapidamente per affrontare gli agenti dell'FBI. Uno di loro era vicino al pannello, ma era rivolto verso di lei mentre l'allarme continuava a suonare all'impazzata. Gli occhi dell'altro agente, il ragazzo, erano spalancati e le sue mani erano leggermente sollevate. La sua bocca si muoveva, ma le sue parole furono soffocate dall'allarme.
Forti braccia la afferrarono da dietro e lei gemette. Lottò per divincolarsi, ma lui era forte. Sentì il suo odore acre mentre l'uomo la avvolgeva stretta, immobilizzandola.
La sollevò di scatto e la tenne sospesa in aria, con le gambe che scalciavano e il braccio bloccato in una posizione dolorosa. Non era abbastanza forte per liberarsi.
Mantieni la calma, pensò. Non lottare. Aveva preso lezioni di autodifesa all'università con un ex marine che l'aveva messa in questo esatto scenario: un aggressore più grande e più pesante che la afferrava da dietro.
Maya piegò il mento, quasi toccandosi la clavicola.
Quindi sbatté la testa all'indietro il più forte possibile.
L'uomo della divisione che la teneva gridò per il dolore mentre la parte posteriore del cranio di Maya sbatteva contro il suo naso. La sua presa si allentò e i suoi piedi toccarono di nuovo il pavimento. Non appena lo fecero, lei si girò, abbassò la testa per liberarsi dalle sue braccia, quindi si lasciò cadere in una posizione accovacciata.
Pesava solamente 48 chili. Ma mentre lei lasciava cadere, l'uomo venne sbilanciato dal suo peso e perse l'equilibrio, già compromesso dal forte colpo in volto.
Barcollò e cadde sul pavimento dell'atrio. Maya saltò all'indietro, lontano da lui, mentre cadeva. Si guardò alle spalle per vedere il secondo uomo della divisione in piedi sulla porta rotta, apparentemente esitante, fare una mossa rapida ora che lei aveva messo a tappeto il suo compagno.
Era a pochi metri dalla porta del seminterrato. Poteva scappare,