Dossier Zero. Джек Марс

Dossier Zero - Джек Марс


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“Ci sono alcune persone potenti che vogliono iniziare una guerra. La stanno pianificando da molto tempo, e tutto per il loro guadagno personale. Se riusciranno nel loro intento, molte persone innocenti moriranno. Parlerò direttamente al presidente e lo avvertirò di quello che sta succedendo, ma non posso fidarmi che non riporrà la sua fiducia nelle mani sbagliate. Questo potrebbe tranquillamente portare a una nuova guerra mondiale”.

      “E non puoi permettere che ciò accada”, disse Sara piano.

      Maya annuì solennemente.

      “Esattamente. E ...”, Zero emise un sospiro pesante. “E questo significa che probabilmente la situazione non migliorerà per un po'. Sanno che voi due siete il modo più semplice per raggiungermi, quindi è necessario che voi vi nascondiate fino a quando non sarà tutto finito. Non so quando sarà. Non so...” Si fermò di nuovo. Voleva dirglielo, non so se sopravvivrò, ma non riuscì a pronunciare le parole.

      Non ne aveva bisogno. Sapevano cosa voleva dire. Gli occhi di Maya si riempirono di lacrime e lei distolse lo sguardo. Sara lo abbracciò di nuovo, e lui la strinse forte.

      “Andrete con Mitch e farete tutto quello che vi dirà, okay?” Zero sentì la sua voce tremare. Era profondamente consapevole, ora più che mai, che questa poteva essere l'ultima volta che avrebbe visto le sue ragazze. “Vi terrà al sicuro. E voi, proteggetevi a vicenda”.

      “Lo faremo”, gli sussurrò Sara all'orecchio.

      “Bene. Ora rimanete qui per un minuto mentre vado a parlare con Mitch. Torno subito”.

       Lasciò andare Sara e si diresse verso il camioncino dove il meccanico stava aspettando pigramente.

      “Grazie”, gli disse Zero. “Non mi devi niente. Apprezzo tutto questo e quando avrò finito ti ripagherò in ogni modo possibile”.

      “Non c'è bisogno”, borbottò il meccanico. Il suo cappello da camionista era ancora abbassato fino a coprire gli occhi mentre la sua folta barba gli copriva il resto del viso.

      “Dove le porterai?”

      “C'è una vecchia casa sicura nelle zone rurali del Nebraska”, rispose Mitch. “Un piccolo edificio appena fuori una cittadina, praticamente nel mezzo del nulla. Non è stata usata per anni ma è ancora registrata. Le porterò lì. Saranno al sicuro”.

      “Grazie”, disse ancora Zero. Non sapeva cos'altro dire. Non era nemmeno sicuro del perché affidasse a quest'uomo le due persone più importanti della sua vita; era una sensazione, un istinto che trascendeva la logica. Ma aveva imparato molto tempo prima, e riappreso solo poche ore prima, a fidarsi del suo istinto.

      “Allora” borbottò Mitch. “Alla fine sta per succedere, giusto?”

      Zero sbatté le palpebre sorpreso. “Sì”, disse con cautela. “Sai tutto quanto?”

      "Sì".

      Lui sussultò. “Chi sei tu veramente?”

      “Un amico”. Mitch controllò l'orologio da polso. “Chopper dovrebbe essere qui da un momento all'altro. Ci porterà in un aeroporto privato, dove saliremo su un aereo che ci porterà verso ovest”.

      Zero sbuffò. Non sembrava che avrebbe ottenuto altre risposte dal misterioso meccanico. "Grazie" mormorò ancora una volta. Quindi tornò a salutare le sue ragazze.

      “Sei tornato”, disse il meccanico dietro di lui. “O sbaglio?”

      Zero si girò. “Si. Sono tornato”.

      “Quando?”

      Sorrise. “Oggi, se ci puoi credere. È stato un pomeriggio molto strano”.

      “Bene”, disse Mitch. “Non avrei mai voluto deluderti”.

      Zero rimase sbalordito. Un formicolio elettrico gli percorse la schiena. La voce di Mitch era cambiata improvvisamente, non era più quel basso grugnito di pochi secondi prima. Era regolare e uniforme, e così stranamente familiare che Zero per un momento si dimenticò della Divisione, della sua situazione e persino delle sue figlie in attesa.

      Mitch infilò la mano sotto il bordo del cappello da camionista e si strofinò gli occhi. Almeno è quello che sembrava che stesse facendo, ma quando distolse le mani sulle sue dita c'erano due piccoli dischi concavi, di un azzurro cristallino.

      Lenti a contatto. Indossava lenti a contatto colorate.

      Quindi Mitch si tolse il cappello da camionista, si lisciò i capelli e guardò Zero. I suoi occhi castani sembravano tristi, quasi timidi, e in un istante Zero capì esattamente perché.

      "Gesù!" La sua voce risuonò in un sussurro rauco mentre guardava gli occhi.

      Conosceva quegli occhi. Li avrebbe riconosciuti ovunque. Ma non poteva essere. Non era possibile. "Cristo! Tu... eri morto".

      "Anche tu lo sei stato per un paio d'anni", disse il meccanico con tono morbido, quasi dolce.

      "Ho visto il tuo corpo", ribatté Zero. Non può essere vero.

      "Hai visto un corpo che sembrava il mio". L'uomo corpulento si strinse nelle spalle. "Non fingiamo che io non sia sempre stato più intelligente di te, Zero".

      "Santo Cielo!" Zero lo guardò più e più volte. Aveva messo su una trentina di chili, forse di più. Si era fatto crescere la barba. Indossava il cappello da camionista e lenti colorate. Aveva cambiato la sua voce.

      Ma era lui. Era vivo.

      “Non ci credo”. Fece due passi e abbracciò forte Alan.

      Il suo migliore amico, che aveva alle spalle così tante operazioni, che lo aveva aiutato a installare il soppressore di memoria invece di ucciderlo sul Ponte Hohenzollern, che Zero pensava di aver trovato morto, pugnalato a morte in un appartamento a Zurigo... era lì. Era vivo.

      Ripensò a quegli istanti a Zurigo. La faccia del morto era gonfia e tumefatta, e la sua mente aveva immediatamente collegato quel sosia a Reidigger. La tua mente riempie gli spazi vuoti, gli aveva detto una volta Maria.

      Reidigger aveva simulato la propria morte, allo stesso modo in cui aveva aiutato Kent Steele a simulare la sua. E viveva sotto le spoglie di un meccanico a soli venti minuti di distanza da casa sua.

      "Per tutto questo tempo?" chiese Zero. La sua voce era rauca e la sua vista si offuscò leggermente mentre le emozioni prendevano il sopravvento. “Ci hai tenuto d'occhio?”

      “Al meglio che ho potuto. Watson mi ha aiutato”.

      Proprio così. Watson lo sa. Era stato John Watson a presentare per la prima volta Reid Lawson a Mitch, il meccanico, ma lo aveva fatto solo quando le figlie di Reid erano state prese, quando la posta in gioco era troppo alta e la CIA era di scarso aiuto.

      “Qualcun altro lo sa?” chiese Zero.

      Alan scosse la testa. “No. E non possono saperlo. Se l'agenzia venisse a scoprirlo, sarei un uomo morto”.

      “Avresti potuto dirmelo prima”.

      “No, non avrei potuto”. Alan sorrise. “Senza la tua memoria intatta, mi avresti riconosciuto? Mi avresti creduto se te lo avessi semplicemente detto?”

      Zero dovette ammettere che aveva ragione.

      “È stato il dottor Guyer? Sei andato a trovarlo?”

      "Si", rispose Zero. “Al momento non ha funzionato. È successo dopo, una parola ha scatenato tutto. E adesso..." Scosse la testa. "Ora lo so. Mi ricordo. Devo fermarlo, Alan".

      "Lo so. E sai che darei qualsiasi cosa per essere al tuo fianco mentre lo farai".

      "Ma non puoi". Zero lo capiva perfettamente. Inoltre, Alan aveva un compito che era, agli occhi di Zero, altrettanto importante che fermare una guerra. "Ho bisogno che tu le tenga al sicuro".

      "Lo farò. Prometto che lo farò". Gli occhi di Alan si illuminarono all'improvviso. "A proposito, ho qualcosa per te". Raggiunse il finestrino del suo camion e tirò fuori


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