Un’esca per Zero. Джек Марс
Maria. "Devo andare a Langley".
"Di sabato?" chiese Zero stupito.
Lei alzò le spalle, e aggiunse "burocrazia".
"Scartoffie", aggiunse. Zero sapeva perfettamente che non c'era nessuna scartoffia. La "burocrazia" era la scusa che si davano l'un l'altra quando non potevano dire la verità ma non volevano mentire apertamente. Un'ironia naturalmente, dato che la "burocrazia" era in realtà una vera e propria balla.
"Dove sei stato la scorsa settimana?" Chiese Maria con finta innocenza.
Zero sorrise. "Burocrazia".
“Touché”.
Maria non sapeva di Bixby e Zero voleva che continuasse a non sapere nulla. Così cambiò rapidamente argomento. "Ci vediamo stasera?"
"Assolutamente sì". Lei sorrise e prese un croissant dalla scatola. "Ma ora devo scappare. Ne prendo uno da mangiare per strada. Ti chiamo più tardi".
"Devo scappare anch'io", aggiunse Maya. “Letteralmente”.
"Vado a farmi una doccia", annunciò Sara.
"Ehi, aspettate". Gridò Zero mentre cercavano di abbandonare contemporaneamente la cucina. "Aspettate un attimo". Tre volti in attesa si voltarono verso di lui. “Ehm, stavo pensando… Tra poco è San Valentino. Perciò magari, non prendetevi impegni".
Si guardarono a vicenda. "Dici a noi?" Chiese Maya.
"Voi tre. Ciascuna di voi. Voglio trascorrerlo con le tre donne della mia vita".
"Uhm… certo. Okay". Maya annuì.
“È fantastico", disse Maria.
"Come ho detto," mormorò Sara. “Strano.”
E poi se ne andarono, la porta principale e quella del bagno si chiusero alle loro spalle quasi nello stesso momento.
Zero sospirò sulla sua frittata. "Ora a noi due, amica mia". Afferrò il piatto e si sedette al piccolo bancone.
A vederlo da fuori tutto sembrava fantastico nella sua vita. Lui e Maria si frequentavano di nuovo ufficialmente e da un paio di mesi avevano ripreso la loro relazione. Lui aveva tenuto l'appartamento a Bethesda e lei il piccolo bungalow che un tempo condividevano. Forse presto sarebbero tornati a vivere insieme. Lui aveva con sé le due ragazze, ed era molto bello. Cercava davvero di lasciare loro dello spazio affinché prendessero le loro decisioni da sole, una era ormai un'adulta e l'altra aveva già fatto l'esperienza di vivere da sola. E anche se lo consideravano strano, certamente avevano notato un positivo cambiamento nel suo atteggiamento.
Ed effettivamente era cambiato. Zero si era sforzato seriamente di migliorare, perfezionando le sue abilità culinarie, trascorrendo più tempo con le ragazze, proponendo cose divertenti da fare come famiglia coinvolgendo il più possibile anche Maria. Voleva vivere la vita al massimo… perché non aveva idea di quanto tempo gli restasse ancora da vivere.
Guyer non ne aveva idea. Nemmeno Bixby. E se le due menti più brillanti che avesse mai incontrato non sapevano dargli risposte, dubitava che chiunque altro al mondo potesse farlo. Avrebbe continuato a perdere la memoria. Di tanto in tanto dei ricordi sarebbero affiorati, come i ricordi degli omicidi compiuti in gioventù come agente oscuro della CIA. Ma aveva deciso che doveva guardare avanti, non indietro. Il passato era il passato, quello che contava ora era il futuro.
Sapeva cosa doveva fare: doveva trovare l'agente di cui Bixby gli aveva parlato, quell'uomo di nome Connor, quello a cui era stato impiantato il soppressore della memoria. Le possibilità che quel ragazzo fosse ancora vivo erano scarse e, nel caso, le possibilità che Zero lo trovasse lo erano ancora di più.
Tuttavia, doveva provarci. Allo stesso tempo doveva continuare a cercare di sfruttare al massimo il tempo che gli era rimasto per influenzare positivamente la vita delle persone che amava. Voleva essere sicuro che, una volta che se ne fosse andata, loro si sarebbero ricordate di lui e di questi momenti. Era questo il lato di lui che voleva ricordassero.
Perché alla fine il suo cervello lo avrebbe ucciso, a meno che non venisse ucciso prima dal dolore per il fatto di dover conservare questi segreti quando aveva promesso a tutti di essere onesto.
CAPITOLO QUATTRO
Maria Johansson fece scorrere la sua tessera magnetica in una fessura verticale nel muro di un corridoio bianco, nei sotterranei del quartier generale della CIA a Langley. Si sentì un forte ronzio, lo scivolare di un pesante dispositivo elettronico e la porta d'acciaio si aprì con grande fragore.
Questo era solo uno dei quattro piani sotterranei del George Bush Center for Intelligence: quattro di cui lei era a conoscenza e probabilmente ce n'erano altri di cui era all'oscuro. Anche in qualità di ex vicedirettore, non era a conoscenza di tutti i segreti dell'agenzia e non era abbastanza stupida da credere che avrebbe mai avuto accesso a tutti i segreti di quell’edificio.
Tuttavia, era stupefacente che la sua chiave magnetica funzionasse ancora. A novembre, dopo aver fermato il gruppo di ribelli cinesi e la loro arma ad ultrasuoni, si era dimessa dal suo incarico e aveva ripreso la sua attività di agente speciale. Eppure non le avevano ancora revocato le autorizzazioni di cui godeva grazie alla sua posizione precedente.
Ed era piuttosto sicura di sapere il perché.
Maria chiuse la porta dietro di sé e fece un cenno all'unica guardia di sicurezza vestita di grigio che sedeva dietro una scrivania beige. L’uomo stava leggendo una copia della rivista Sports Illustrated. "Buongiorno, Ben".
"Signora Johansson". L'agente in pensione non aveva intenzione di muoversi, tanto meno di controllare il suo ID o scansionare la sua chiave magnetica.
"Devo firmare …?" chiese dopo un momento di imbarazzante silenzio.
Ben sorrise. "Credo di ricordare ancora chi è lei, l'ho vista pochi giorni fa". Ciondolò con la testa lungo il corridoio. "Vada pure".
"Grazie".
I tacchi dei suoi stivali fecero rumore sul pavimento piastrellato ed echeggiarono tra le celle vuote mentre si dirigeva verso l'ultima stanza sul lato sinistro del corridoio. Non c'erano altri prigionieri in questo piano seminterrato; si trattava di un’area di detenzione temporanea, solitamente riservata a terroristi locali, criminali di guerra, militari furfanti e occasionali agenti traditori. Era una stazione di passaggio lungo il percorso verso luoghi molto peggiori, come Hell Six in Marocco, o un semplice buco scavato nella terra.
Odiava mentire a Zero. È così che pensava a lui in questi giorni, come a Zero. Le aveva chiesto di smettere di chiamarlo Kent il mese precedente. Nessuno ormai lo chiamava più con il suo ex alias della CIA; ormai non era più Kent Steele. E quasi nessuno tra tutti quelli che si relazionavamo con lui lo chiamavano con il suo vero nome, Reid Lawson. Era semplicemente l'Agente Zero. Accidenti, anche il Presidente lo chiamava Zero. E anche Maria.
Anche se "burocrazia", tecnicamente, non poteva essere considerata una bugia, ricordò a sé stessa. Era la loro parola in codice per dire "è un segreto e preferirei che non me lo chiedessi". In effetti, proprio la settimana precedente, quando aveva detto alle ragazze che sarebbe andato in California, le aveva detto che doveva prendersi cura di alcune "scartoffie burocratiche".
Quindi lei non gli chiese nulla. Beh ci aveva scherzato su molto con lui quella mattina, ma non seriamente. Inoltre, cosa avrebbe dovuto dirgli? Negli ultimi due mesi sono andata a trovare un'assassina, una prigioniera della CIA e mi imbarazza ammetterlo?
Certo che no. Suonava davvero terribile.
La cella era angusta, con un pavimento e un soffitto di cemento e pareti fatte non di sbarre ma di vetro rinforzato. Una griglia di fori sul lato rivolto verso il corridoio rendeva possibile la comunicazione con la prigioniera che si trovava all'interno. Non c'erano finestre, ma quel che è peggio è che non si riusciva a scorgere nemmeno una porta. Maria non era nemmeno sicura di come fosse accessibile la cella; un pannello nascosto in una delle facciate di vetro, molto probabilmente, ma non era minimamente evidente. Era una manovra psicologica intesa a dimostrare alla prigioniera che non c'era assolutamente via d'uscita.
Il cuore di Maria si spezzava un po' ogni volta che vedeva quel vetro. Anche se non