Un’esca per Zero. Джек Марс
scrollò le spalle. "Non ne ho idea". Potrebbe essere morto. E se non lo è, l'hanno nascosto molto bene.
Sara si accigliò, chiedendosi perché suo padre avrebbe dovuto cercare un agente presumibilmente morto. "Che cosa ti serve da lui?"
Suo padre bevve faticosamente un sorso dalla bottiglia poi mormorò qualcosa sottovoce. Maya non riuscì a capirlo, ma le sembrò quasi che avesse detto "scartoffie".
“Che cosa?”
"Niente", le disse. “Non posso dirtelo. È una… questione di lavoro".
"Ho capito". Ma dal suo comportamento e dal fatto che al momento non era ingaggiato dalla CIA per condurre una caccia su vasta scala per trovare questo ragazzo, ipotizzò che non si trattasse di una questione di lavoro. "E perché me lo dici qui al freddo, sul balcone…?"
Non rispose nulla, ma la guardò inespressivo. Le ci volle un momento per interpretarlo, ma quando lo fece le si rivoltò lo stomaco.
"Oh mio Dio, non pensi davvero …?" Si trattenne dal dirlo ad alta voce. Pensava che il loro appartamento potesse essere in qualche modo controllato.
"Non ne sono sicuro. Alan ha fatto un po' di ricerche, ma tendono a diventare sempre più creativi".
Maya scosse la testa disgustata al pensiero che tutto ciò che diceva, forse anche tutto ciò che faceva, per non parlare della sorella, venisse registrato in qualche database della CIA. Una volta le avevano impiantato un chip di tracciamento proprio sotto la pelle e il pensiero che qualcuno potesse sempre conoscere la sua posizione era abbastanza inquietante.
Ma essere effettivamente osservata… le riportò alla mente i tre ragazzi adolescenti di West Point, che si erano nascosti in uno spogliatoio, aspettando che uscisse dalla doccia in modo da poterla aggredire. Chi sapeva da quanto tempo erano lì, cosa avevano visto…?
Allontanò con forza quel pensiero dalla testa. Suo padre conosceva il minimo indispensabile di ciò che era accaduto e non aveva alcuna intenzione di rivelargli i dettagli in quel momento. Era un problema suo, come non la riguardava il problema di suo padre.
"Cosa hai intenzione di fare ora?" Domandò lei.
Zero agitò una mano con disprezzo. “C'è un medico, forse, che lo conosce. O lo conosceva. Non lo so ancora. Sto aspettando alcune informazioni da Reidigger". Le sorrise, voltandosi indietro. "Dai, torniamo dentro".
"Aspetta. Se non dovresti parlarne, perché mi stai dicendo tutto questo?”
La fissò per un momento, abbastanza a lungo da permetterle di pensare che neanche lui fosse sicuro della risposta.
"Perché", disse alla fine, "quando sono frustrato, parlare mi aiuta".
La strinse alle spalle e tornarono dentro, giusto in tempo per vedere Sara che si stava chiudendo la porta alle spalle. Si tolse il berretto di lana, il naso e le guance arrossati e screpolati dall'aria invernale.
Sara diede un'occhiata al loro papà e annuì. "Quindi pizza per cena, allora?"
Lui alzò entrambe le mani. "Sono davvero così prevedibile?"
Maya sorrise, ma poi notò che c'era qualcosa in Sara che non andava. Si muoveva con rigidità e sembrava che non fosse solo per il freddo. Anche dopo aver tolto il parka, sua sorella tenne i gomiti ben chiusi, quasi sulla difensiva.
“Tutto bene?” Chiese Maya.
Sara tirò su con il naso. "Sì. Solo, sai, le mie solite cazzate".
"Attenzione al linguaggio", la richiamò suo padre dalla cucina. E poi, "Sì, vorrei due grandi piz…"
"Sto bene", la rassicurò Sara mentre si dirigeva verso la loro camera da letto condivisa.
Maya non ci credeva, ma sapeva che non era il momento di indagare oltre. Tutti avevano i loro problemi e tutti li trattavano a modo loro. Per una famiglia che si era promessa reciprocamente l'onestà, sembravano mantenere molti segreti. Ma non era una questione di disonestà; era una questione di indipendenza, ciascuno era responsabile per sé stesso.
Doveva ammettere comunque, che talvolta si sentiva sola.
Ma forse non avrebbe dovuto. Stava pensando a questo Connor scomparso. Doveva esserci un modo per trovare il ragazzo… e una persona intelligente come lei avrebbe dovuto arrivarci. Forse avrebbe dovuto riuscirci per mostrare a suo padre, non a parole, che non doveva essere sempre solo davanti ai suoi problemi.
Se solo ci fosse riuscita in qualche modo.
CAPITOLO SETTE
Il Presidente Jonathan Rutledge si stava rilassando su un divano a strisce nello Studio Ovale. Si tolse i mocassini e appoggiò i talloni sul tavolino lucido che si trovava davanti a lui. Era abbastanza certo che il divano, uno dei due disposti in posizione perpendicolare alla scrivania, non fosse in quel posto il giorno prima, ma non poteva esserne sicuro. Di solito quella stanza era piena di attività, consiglieri, capi e amministratori che correvano qua e là, e i mobili erano per lo più uno sfondo, non arredamento. A ciò si aggiungeva sua moglie, Deidre, che si era incaricata di "aiutare" il team di progettazione della Casa Bianca a ridipingere ogni stanza una volta alla settimana, o almeno così gli sembrava.
Era un bel divano. Sperò di poter stare ancora un poco in ufficio.
Lo scorso novembre Rutledge aveva fatto quasi la fine dei mobili. Solo pochi mesi prima aveva preso seriamente in considerazione di dimettersi dall'ufficio di presidenza, ritenendosi inadatto al compito. Era stato promosso da Presidente della Camera alla carica più alta grazie all'immenso scandalo dei suoi predecessori che coinvolgeva la Russia, e gli ci era voluto del tempo per abituarsi alla posizione, ai poteri che gli erano stati concessi e alla responsabilità richiesta.
Ma ormai era acqua passata. Aveva preso la decisione di rimanere in carica, e poi aveva nominato vicepresidente la senatrice della California Joanna Barkley. Fino a quel momento stava facendo un lavoro stellare. Il loro indice di gradimento era alle stelle; Rutledge nei sondaggi stava conquistando persino i conservatori. C'era stata solo una piccola battuta d'arresto per un paio di giorni a metà dicembre quando aveva commesso il grave errore di tingersi i capelli di un color nocciola. L'aveva fatto solo perché i capelli grigi lo infastidivano, non per vanità o per sembrare giovane, ma per preservare la propria autostima. Eppure per ben due giorni e mezzo gli esperti dei media non poterono fare a meno di lamentarsi di ciò che Rutledge stava cercando di dimostrare. Apparentemente tingersi i capelli non era previsto nel grande libro non scritto delle regole presidenziali. Ci si aspettava, com'era successo ai suoi predecessori, che invecchiasse con dignità, oppure anche in maniera terribile.
Questo era uno di quei momenti molto rari in cui era solo, e si stava proprio godendo quell’attimo, la giacca appesa al muro e i calzini neri sul tavolo. Ovviamente non era mai davvero solo; c'erano telecamere dappertutto e almeno due membri dei servizi segreti erano appostati appena fuori dalle porte dell'ufficio. Ma era abbastanza, e si sarebbe regalato quei piccoli momenti appena possibile, perché erano rari e lontani tra loro, momenti che a malapena riempivano gli spazi esigui come le fessure tra i mattoni.
I rapporti degli Stati Uniti con la Russia erano in crisi da un paio d'anni ormai, anche prima che Rutledge diventasse Presidente della Camera. E ora anche la Cina era passata dalla parte del nemico. La guerra commerciale era finita e il governo cinese se la stava giocando bene, ma solo perché Rutledge stesso aveva minacciato di far trapelare l'intero calvario dell'arma ad ultrasuoni e le identità dei commandos che la gestivano. Al momento c'era una tregua, ma fragile come il vetro e che poteva frantumarsi non appena i cinesi ne avessero intravisto l'opportunità.
Eppure qualcosa doveva dare. Rutledge lo sapeva e aveva anche un'idea, ma fu la Barkley a fargli credere che si potesse fare. Aveva un modo tutto suo di affrontare problemi enormi, apparentemente impossibili e trasformarli in soluzioni attraverso percorsi razionali. Sarebbe stata una grande matematica, pensò; per lei ogni problema si risolveva nei componenti più semplici.
L'obiettivo, in poche parole, era la pace in Medio Oriente. E non solo tra gli Stati Uniti e ogni paese membro, ma anche tra tutti gli altri paesi. Certo, era inverosimile, ma l'importante sarebbe stato muoversi nella giusta direzione.
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