L’alibi Perfetto. Блейк Пирс

L’alibi Perfetto - Блейк Пирс


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dei piatti, porgendone uno a testa agli altri.  Poi si sedette e diede un morso al suo.

      “Mmm,” mormorò sommessamente, incapace di trattenersi.

      “Non sono troppo bruciacchiati?” chiese Hannah.

      “Vorrei essere sarcastica, ma non posso proprio,” bofonchiò Jessie con la bocca mezza piena. “Come fai a farli così buoni?”

      Hannah sorrise, senza mostrare niente del suo innato cinismo. Jessie non poteva fare a meno di notare quando fosse vivace e animata in quei giorni. I suoi occhi verdi, di solito opachi e disinteressati, brillavano. I suoi capelli biondo sabbia sembravano in qualche modo più luminosi. Appariva addirittura più alta, dato che ultimamente camminava a testa alta. Con una statura di un metro e settantanove, era solo un centimetro più bassa di Jessie, ma con questa nuova e migliore postura e la corporatura atletica, poteva sembrare il doppio di sua sorella.

      “Il segreto sta tutto in una parola: burro. A dire il vero facciamo tutte e quattro le parole: un sacco di burro.”

      Prima che Jessie potesse prenderne un altro morso, il suo telefono suonò. Abbassò lo sguardo e si accorse che era la chiamata che aveva programmato.

      Sono già le nove di sera?

      Si stava divertendo così tanto che aveva perso il senso del tempo.

      “Chi è?” le chiese Ryan.

      “È il primo profiler criminale del sud California. Voleva una mia idea su un caso,” mentì. “Datemi quindici minuti.”

      “Ok,” disse Hannah, “ma poi saltiamo il tuo turno.”

      “Capito,” disse Jessie, portandosi scone e telefono in camera.

      Cercò di mantenere il tono allegro. Ma neanche il delizioso impasto di Hannah poteva aiutarla a eliminare il nervosismo che improvvisamente le si era materializzato nello stomaco. Stava per rispondere, quando cambiò idea. Non voleva interrompere questa serata quasi perfetta per discutere di questioni più oscure, quindi decise che non l’avrebbe fatto. Mandò la chiamata alla segreteria e rispose con un messaggio.

      Ottima serata con Hannah in corso. Non voglio interromperla. Possiamo parlare domani?

      Dopo qualche secondo ricevette la risposta. Poté quasi sentire il tono serio e deciso.

      Vediamoci di persona. Sala del personale alla centrale. 7 in punto.

      Digitò ‘Ok’ in risposta e lasciò cadere l’argomento. Sapeva che gli piaceva arrivare in ufficio presto, ma non poté fare a meno di pensare che avesse fissato il loro incontro a quell’ora assurda come punizione per quel suo cambio di programma. Però ne valeva la pena, se così facendo poteva passare dell’altro tempo di qualità insieme ad Hannah.

      “Ehi,” disse, tornando in salotto. “Ho deciso che farvi il culo era meglio di qualsiasi altro caso. Sarà meglio che non abbiate davvero saltato il mio turno.”

      Mentre tornava a prendere il suo posto, Jessie sapeva che stava solo posticipando la discussione su un argomento che la stava ossessionando. Ma una sera in più di giochi non era poi la fine del mondo. Almeno questo fu quello che disse a se stessa. La realtà, in tutto il suo orrore, avrebbe dovuto aspettare l’indomani.

      CAPITOLO TRE

      Con una ben visibile eccezione, la sala del personale era vuota.

      “Grazie per aver trovato il tempo,” disse Jessie quando arrivò alle 6:58 la mattina dopo. Giusto per sicurezza, si chiuse la porta alle spalle.

      “Sono un uomo impegnato,” disse Garland Moses con tono beffardo, voltandosi a guardarla. Era seduto a un tavolo e stava masticando quella che sembrava una barretta ai cereali. Jessie era tentata di rispondere a tono, smascherando la sua finta irritazione, ma si trattenne.

      “Un uomo impegnato che mi sta evitando da un mese,” commentò.

      “Avevo un grosso caso a cui lavorare,” protestò lui. “E poi ho avuto quella conferenza a Filadelfia. E poi sono stato in vacanza.”

      “Non sparare stupidaggini, Garland. Nella tua ultima sostanziale conversazione con me alla mia festa di compleanno, avevi accennato al fatto che avevi delle preoccupazioni riguardo ad Hannah. E poi ti sei volatilizzato per un mese. Stavo dando di matto.”

      Era un’esagerazione, ovviamente. Le cose erano andate effettivamente alla grande con Hannah in quelle ultime quattro settimane. Considerato tutto quello che la sua sorellastra aveva passato nei sei mesi precedenti, il fatto che fosse in grado di godersi una sana serata tra giochi da tavolo e scone era un piccolo miracolo. Ed era il motivo per cui ieri sera non aveva voluti interrompere l’idillio.

      “Sai che sono un cittadino di una certa età, vero?” disse. “Non faccio discorsi che includano l’espressione ‘ti sei volatilizzato’.”

      “Stai temporeggiando,” disse Jessie.

      “No, adesso temporeggio,” disse, alzandosi lentamente in piedi. “Prendiamoci del caffè.”

      Fece strada alla macchinetta del caffè. Jessie tentò di ignorare il distributore accanto. Non aveva ancora fatto colazione e sentiva la pancia che brontolava al pensiero di uno snack carico di grassi e conservanti. Mentre Garland camminava, Jessie notò con indossava l’outfit che ormai aveva imparato essere essenzialmente la sua uniforme quotidiana.

      Aveva una giacca sportiva grigia dall’aspetto usurato, sopra a un gilet marrone e a una camicia beige. I suoi pantaloni blu erano stropicciati e aveva i mocassini ricoperti di graffi. I capelli bianchi erano spettinati e puntavano in ogni direzione, come se lui stesse tentando di vincere una gara come sosia di Albert Einstein. Il look era completato da un paio di occhiali bifocali appoggiati sul naso.

      Ma Jessie aveva imparato che le apparenze potevano ingannare e che il profiler veterano che aveva di fronte coltivava quell’aspetto trasandato perché la gente lo sottovalutasse. Era sempre perfettamente rasato, senza mai il minimo pelo sul mento. I suoi denti bianchi erano immacolati e le unghie pulite e curate in maniera impeccabile. I lacci dei mocassini erano nuovi e ordinatamente legati in un doppio nodo.

      Negli aspetti più importanti, lo si poteva considerare al top della forma. Jessie non solo lo rispettava, ma lo apprezzava davvero.

      “Ok, signorina Hunt,” iniziò, chiaramente pronto a smetterla di temporeggiare.

      “Penso che abbiamo raggiunto il punto in cui puoi chiamarmi Jessie, Garland. Cavolo, io pensò che da un momento all’altro potrei chiamarti nonno!”

      “Non farlo, ti prego,” insistette lui. “Ok, Jessie. Non intendevo spaventarti. Ma ho dei pensieri riguardo ad Hannah. Intendo condividerli con te, ammesso che tu li mantenga all’interno del dovuto contesto.”

      “Quale contesto?” gli chiese.

      “Ricorda: questa è una ragazza di diciassette anni a cui il padre biologico – noto serial killer – ha brutalmente ammazzato i genitori. E davanti ai suoi occhi.”

      “Di questo sono perfettamente consapevole, Garland,” gli rispose con impazienza. “Prima di tutto, ero presente. E secondo, quel serial killer era anche mio padre, se ricordi.”

      “Sto disegnando un quadro,” disse lui con pazienza. “Posso continuare?”

      “Vai avanti,” disse Jessie, decidendo di non interromperlo, dato che stava cercando di parlarci da un mese.

      “Allora,” continuò l’anziano profiler, “solo poche settimane dopo è stata rapita da un altro serial killer che voleva convincerla a diventare un’assassina come lui e suo padre. Come parte del programma, l’ha costretta ad assistere all’assassino anche dei genitori adottivi.”

      Jessie sentiva l’urgenza di sottolineare che, dato che era stata lei a salvare Hannah in entrambe le circostanze, era perfettamente a conoscenza dei dettagli. Ma ovviamente lui lo sapeva. Stava solo avvalorando i fatti. Quindi, mentre lui parlava, Jessie decise di fissare il proprio riflesso nel vetro del distributore automatico, cercando di appianare la fronte corrugata.

      “Giusto,” confermò,


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