Ombre di occaso. Alfredo Oriani
di castello in castello, fino alla notte prefissa, nella quale le acque gli avrebbero rivolto il funebre invito.
Una notte l'ondina chiamò ed egli la seguì.
Ma sul morto re l'imperatrice non potè piangere, perchè altri pazzi dalla vecchia casa le erano accorsi d'intorno, ed ella tremò che potessero comprendere quel pianto.
Non si sentiva forse pazza essa medesima? Non era pazza Carlotta, la vedova dell'arciduca bello, fucilato a Queretaro come un bandito, egli che aveva sognato una gloria di paladino e d'imperatore? La sua donna entrava ancora per tutte le corti d'Europa a cercare la sua traccia con un sibilo di lontane paure negli orecchi, che la facevano chiedere e singhiozzare come un bambino. Ma nemmeno per essa vi era pietà. Poi un altro arciduca doveva fuggire per sempre, incognito sopra una nave, e l'Erede, l'estremo della lunga dinastia, sparire in un mistero di sangue e di amore, vittima forse ed assassino, colla fanciulla del suo peccato; ed ancora un'altra arciduchessa fra le fiamme e domani forse l'ultima regina di Spagna in una rivoluzione.
Quindi la sua ragione e il suo cuore vagavano.
S'incantava nei mari che ondulano, nei fiumi che scorrono, nelle nubi che veleggiano, nei vascelli che salpano, nelle vaporiere che scompaiono: ascoltava le musiche profonde delle foreste e le sommesse cantilene dei laghi: talvolta i versi del suo poeta le passavano fra le memorie, come d'autunno gli uccelli migrano affrettando le ali, sola sopra un cavallo lo avventava ancora in una furia improvvisa di Valchirie, ma il sangue non le balzava più sotto le sferzate del vento, e l'anelito della nobile bestia, la bava bianca del suo morso dispersa nell'aria come una piuma, non le richiamavano più sulle labbra pallide il sorriso della vittoria.
Perchè fuggire?
I vecchi, coloro che rimasero soli, non sanno più dove andare.
Amava il mare, ma non amava il popolo che gli somiglia.
Nata troppo in alto, aveva vissuto sempre tutta chiusa nell'orgoglio della propria originale magnificenza, che la rendeva straniera fra la folla moderna così uniforme e così bassa nella uniformità; ed ella, l'Errante, non vi aveva mai guardato, sentendo dalla sua vastità salire come un brivido la voce delle anime abbandonate.
Così non sapeva forse che altri vi erravano come lei, più poveri e più soli. Non era di costoro quello zingaro che un giorno, senza riconoscerla, lesse nella sua mano la morte prefissale dal destino? Ella sorrise con mesta incredulità al cencioso profeta ricusante la ricca elemosina; ma l'anarca, che compì la profezia piantandole una lima nel cuore coll'impassibile precisione di chi non discute il proprio mandato, non era anch'esso un Errante fra la folla?
Un altro sogno di dolore e di odio rompeva così quel sogno d'amore e di dolore.
Lo sconosciuto, subito arrestato, si chiamava Lucheni. Era italiano, ma nato a Parigi da un uomo e da una donna forse ignoti l'uno all'altra e congiunti da un qualche vizio più urgente della fame: poi la madre lo abbandonò ad un ospizio, che gli diede il pane e le scarpe, insegnandogli a mezzo un mestiere col quale non avrebbe potuto vivere. Appena diventato un ragazzo, l'ospizio gli chiuse dietro le porte per sempre.
Il ragazzo non sapeva dove andare. Ovunque arrivasse, il luogo non mutava: era sempre la stessa diffidenza ad ogni domanda, il medesimo silenzio in tutti gli occhi, ai quali salivano gli appelli de' suoi sguardi stanchi; quando aveva fame, quando aveva freddo, nessuno se ne accorgeva; i poveri lo guardavano anche più duramente dei ricchi, che gli negavano l'elemosina. Ma siccome voleva vivere, cercava sempre; d'estate come le mosche cercano le immondizie, d'inverno come gli uccelli anche quando il ghiaccio ha indurito la neve sulla campagna. E tuttavia il suo caso non era nuovo. Migliaia di anni prima altre migliaia di bambini nati, come lui, avevano dovuto andare e morire così. Poi qualcuno gli disse: — Tu odii; — e allora capì di avere sempre odiato, anche all'ospizio, nelle sale di lavoro sotto le occhiate gelide dei prefetti, e nei corridoi, ove tante notti non aveva potuto dormire come gli altri, dentro l'oscurità rotta appena dal lucignolo fumoso di una lanterna. Ma siccome l'odio sa ascoltare e rispondere meglio dell'amore, ascoltava e rispondeva. Che cosa aveva egli fatto a quella donna perchè lo mettesse al mondo? Perchè doveva vivere così, niente altro che vivere, lavorare per lavorare, chiedendo quasi sempre indarno un lavoro, senza poterne mai trarre una speranza o un significato? Perchè tanti altri non lavoravano? Perchè erano amati? Perchè avevano tutto?
La società gli aveva insegnato un catechismo che essa medesima non riusciva ad applicare, e tutto era egualmente ingiustizia contro i poveri, persino la morte, poichè la religione insinuava nei loro cuori il dubbio di un altro inferno. Come un atomo dimenticato nel disegno misterioso della creazione, egli vagava urtandosi a tutti i corpi, sempre respinto e sempre solo; il silenzio l'opprimeva; ma se cominciava a parlare, sentiva subito di non potere essere compreso che da un qualche solitario al pari di lui, mentre tutti gli altri erano come i prefetti nell'ospizio e più tardi gli ufficiali nella caserma, i superiori e i nemici che comandavano sempre, senza spiegare mai la ragione del proprio comando.
Dovevano quindi bastare pochi discorsi e poche letture, giacchè sapeva leggere, per alzare quell'istinto di odio a passione, e questa passione nel sogno torbido di un sistema. La caserma compì l'opera dell'ospizio, mutando il trovatello nel soldato, e il soldato in un anarca febbricitante di orgoglio nella prima conquista di se medesimo. Dentro al suo cervello, fosco come un giorno di temporale in un angusto paesaggio vallivo, rare parole e rare idee si urtavano scrosciando, mentre da tutte le lontananze della solitudine gli giungevano voci di altri derelitti, morti e vivi, uomini, donne, vecchi, bambini, adoperati e dimenticati come cose. La schiavitù di ieri era dunque la medesima servitù di oggi, la stessa condanna colpiva ancora i bambini nel ventre delle donne, che il parto non bastava a rendere madri; ogni giorno ancora la vita saliva a un più alto privilegio sulle moltitudini, che l'alimentavano come i concimi fanno coi fiori; lasciandosi suggere dalle loro radici. Tutti i catechismi erano falsi, nessun messia era mai venuto. I governi di oggi, come i più antichi, somigliavano alle testudini, formate cogli scudi delle più vecchie legioni e che nessun urto poteva scomporre; gli imperi sovrastavano, le nazioni si guatavano colla insidiosa compostezza dei lottatori nei circhi. Ora e sempre l'unico libero era il danaro. Tutto il dolore umano non aveva potuto creare nè la giustizia, nè la pietà umana: anche adesso il popolo non sapeva di che cosa nutrirebbe la propria vecchiezza, dopo aver seminato e mietuto, forati i monti, distese le strade, sospinte le navi, alzati i palazzi, adunate colle proprie mani tutte le ricchezze, dato col proprio sangue il battesimo a tutte le vittorie.
Quindi coll'entusiasmo degli ignari egli aveva tentato di offrire il proprio pensiero sui giornali anarchici, che lo ricusarono perchè ravvolto nei cenci del linguaggio comune; e questo nuovo silenzio imposto alla sua miseria gli pesò sul cuore più dell'altro, dinanzi a coloro che gli domandavano: — Chi è tua madre? — Chi dunque fra i poveri può dire veramente di averne una, se le madri non s'inginocchiano ancora davanti ai bambini domandando loro perdono di averli partoriti? Egli invece era solo; ma, non avendo nè madre, nè figli, poteva almeno preferire la fame alla schiavitù, o morire cacciandosi innanzi, come un araldo nel mistero della morte, qualunque imperatore. Quindi un orgoglio senza nome gli rialzava talvolta la testa quasi ad una minaccia lontana, della quale nessuno fra i più grandi avrebbe potuto sottrarsi al muto decreto. Egli pure era un re.
La sua sovranità, creata dal nuovo diritto di eleggere e di essere eletto, si mutava così in una ribellione alla volontà della legge, nella quale il pensiero dell'individuo dovrebbe confondersi come la goccia nell'onda. Mentre tutte le monarchie, diventate egualmente anonime nel popolo, si abbassavano ogni giorno sotto le ondulazioni del suo numero, una anarchia vi drizzava già le proprie punte, come gli antichi guerrieri levavano più alta l'asta sul campo a farla riconoscere nella assemblea. La legge, che una volta era una violenza dei forti, adesso ingannava; nessuna giustizia era possibile in una libertà che non ammetteva l'uguaglianza; la verità non poteva essere proclamata, finchè qualcuno conservava il diritto di nutrire la propria vita colla morte di un altro. Una guerra senza battaglie si preparava dunque in una ribellione di tutti contro tutti per distruggere le ultime differenze, indarno condannate dalla rivoluzione della libertà, che aveva pareggiato eletto ed elettore.
All'eroismo dei grandi, che saliva come un vapore purpureo dalla fusione della folla, doveva quindi seguire quello dei piccoli, che