Ombre di occaso. Alfredo Oriani
del genio, che aduna dalla moltitudine le sillabe della vita, il grido solitario dello ignaro che annunzia l'inespressibile e attraversa tutte le anime come una rivelazione della morte. Ma una sinistra poesia, piena di lampi e di brividi, avvolgerebbe questi interpreti della estrema negazione, che dalla solitudine dell'orgoglio, espandendosi ovunque coll'irresistibile penetrazione di un contagio, dileguerebbero subitamente incomprensibili ed incompresi. Invano qualcuno si vanterebbe poi di averli conosciuti, o nella ultima stretta del dramma essi medesimi, ingannandosi come tutti i messaggieri, pretenderebbero di spiegare il segreto della loro missione simile a quella degli uragani, che passano, devastano, fecondano, e al loro passaggio le anime hanno oscillato nell'infinito.
Poi la gente ciarla del danno o del beneficio fra i nuovi sorrisi dell'aria, senza ricordarsi che una medesima legge governa le rivoluzioni e le tempeste, dalle quali la folgore erompe come un ordine misterioso.
Quell'anarca cencioso, che la vita non aveva potuto ospitare, l'attraversava dentro a una muta bufera di collere e di pietà. Come la solinga imperatrice anche egli non aveva più nulla, nemmeno quei ricordi di cui si nutre il dolore, o quella commiserazione di se stesso che consola tutti i decaduti. Mentre ella errava di villa in villa, ove più pacificatrice sorride la bellezza della natura, l'altro passava per tutte le vie dell'esiglio, nutrendosi di un pensiero di odio quando non aveva pane, soccombendo alla stanchezza dei giorni lunghi come una assenza, alla vacuità delle notti senza riposo, coll'anima che gli strideva dentro come un cane chiuso in una casa deserta.
Nella sua miseria di abbandonato si era mescolato ad ogni miseria: aveva veduti uomini gagliardi tremare per la viltà della fame davanti alla debolezza dei padroni, che negavano loro persino l'elemosina di una promessa; madri colle mammelle secche, abbandonate sul viso sparuto di un bambino, e nessuno dei due piangeva più; vecchi derelitti, che non osavano accostarsi ad alcuno nella vergogna di essere ancora vivi; poi tutte le altre miserie del lavoro micidiale anche quando nutre, accordato pari ad una grazia, invocato e maledetto come la morte; mentre fioriva intorno, dappertutto, la felicità dei ricchi invano creati dalla natura uguali ai poveri, se la volontà di Dio in tutte le religioni permetteva loro di diventare così diversi. Essi avevano la scienza, la libertà, la forza; potevano pesare la vita dei loro fratelli sulle bilance del proprio egoismo senza che nessuna giustizia li vigilasse, e la loro misericordia era come la rugiada nel deserto, che ne rimane ugualmente arido. Allora, sul silenzio violento della sua anima, quelle voci profonde di morti e di viventi, adoperati e dimenticati come cose, salivano simili ad un coro funebre sollevato da urli improvvisi, percorso da gemiti aspri come minacce. Perchè la morte non avrebbe finalmente vinta l'ingiustizia della vita? La morte sola sapeva il segreto della redenzione indarno proclamata da tanti messia, che avevano voluto consolare il dolore umano senza distruggere chi lo aumentava. Quante vittime sarebbero ancora indispensabili alla morte, perchè la vita potesse finalmente mutare? Tutti quei morti, che la terra sembrava aver disciolto nelle proprie viscere, si agitavano dentro le anime nate dalla loro, sospingendole sempre più in alto col grido dell'ultima resurrezione. Essi volevano risorgere nei figli contro i figli dei propri sacrificatori per cancellare colle fiamme dell'estremo olocausto le vestigia di tutte le ingiustizie; ma non vi sarebbe più alcun giusto nel giorno della espiazione finale, nè fra coloro che colpirebbero, nè fra coloro che sarebbero colpiti, giacchè l'eredità aveva macchiata ogni innocenza colla trasmissione del privilegio.
Forse l'innocenza salvò mai qualcuno?
Non poteva egli pure vantarsi innocente? Il suo odio non era una invocazione del dolore alla giustizia?
Come quei penitenti, che fuggivano dal mondo per nascondersi a pregare da Dio la pietà del perdono, egli era rimasto solo fra la moltitudine. Anarchi ed anacoreti possono trovare chi loro somigli, ma sono sempre egualmente solitari nell'eremo e nel partito, finchè il loro sogno non si dissipi, e la vita li riattivi nella minuta vicenda delle lotte quotidiane. Così egli non aveva forse cercato talvolta fra compagni che qualche soffio per la propria fiamma o un nuovo argomento contro un dubbio, mentre, contrapponendosi al mondo come un giudice, l'orgoglio stesso del proprio odio doveva renderlo incapace di comprenderne le leggi e di esservi compreso. Quindi ridotto all'unica misura di se medesimo, vi aveva sottoposto nella facilità di un sogno tutto quanto non consente a misura, la vita coi suoi istinti e la storia colle sue trasformazioni. Lungamente il suo dolore aveva creduto di divorare tutti i dolori, e il suo odio tutti gli odii, e la sua negazione tutte le negazioni.
Quanto più piccolo lo aveva fatto la natura o in basso respinto la società, e più alto egli si levava sopra entrambe, stringendo la propria vita in pugno come un'arma per colpire lassù, dove l'individuo è simbolo, cui la folla si prosterna, e morire così al disopra di ogni giustizia. Che importano le sentenze della legge o del costume, se qualunque atto, salga da troppa profondità o attinga troppo in alto, deve sempre essere falsamente misurato, e chi lo compie ha in se stesso l'indiscutibile ragione della morte?
Non vi può essere delitto quando l'egoismo non ne sperò alcun frutto.
Una superbia lucida come i ghiacci delle cime più inaccesse illumina allora di spettrali chiarori la lunga vigilia dell'azione. Ebbrezze mute di un segreto superiore a tutte le curiosità, inesprimibili melanconie della dedizione suprema, amaritudini della morte lungamente assaporata nella fatica febbrile della volontà, entusiasmi di eroe che sconfigge e di martire che perdona, ondeggiamenti di tempesta e impeti di folgore, l'anima solitaria sopporta tutto, delira di tutto. Il sogno diventa incantesimo, che si dilata tra vampe e vapori entro una scena immobile, per la quale una forza arcana ci spinge direttamente.
Quel Caserio, che pugnalò il secondo presidente della repubblica francese, non compì forse l'atto ferale colla impassibile precisione di un sonnambulo, e non si destò gettando quel grido che lo scoperse già salvo tra la folla? Quell'Angiolillo, che uccise Canovas, ministro presidente di Spagna, non rimase assorto nel proprio atteggiamento di cavaliere sino sulla sedia della garotta? Quell'Henry, che gettò una bomba in un caffè parigino massacrandone la folla, non serbò la faccia opaca di un allucinato dinanzi alla lunga processione dei feriti, e non rispose con un gesto di statua alla madre piangente, la quale tendeva le braccia verso di lui?
Tutti costoro oltrepassarono il delitto o guardandolo dalle regioni della morte non lo riconobbero più. Che se l'incantesimo vanì prima di essa e ricaddero nelle perplessità del rimorso davanti al patibolo, non capirono egualmente il proprio atto, come il poeta non può risalire nell'ode già caduta dal cielo della sua ispirazione.
E trascurabili sono le differenze intellettuali fra questi messi del dolore, che la follia conduce per mano alla morte, e la morte non può rilevare a se stessi. Precursori di un messia, che evochi dalla distruzione del nostro mondo un'altra umanità, essi ne annunziano l'avvento coll'orrore degli antichi olocausti: quindi la vittima prescelta è sempre simbolica o anonima, un re o una folla, che il sacrificio deve consumare col sacrificatore. Delitto? certamente per la legge. Errore? senza dubbio per la scienza; ma la vita e la storia poterono mai fare a meno dell'errore?
Invincibile come tutti i solitari, l'anarca non ha partito.
Coloro adunati in tale nome sono sofisti, i quali non sanno che l'anarchia nella propria suprema negazione prova appunto la stessa insufficienza in tutti i partiti, o saccomanni che impazienza dell'imminente battaglia disfrena già negli accampamenti.
Contro gli uni e gli altri basta il grido delle sentinelle o l'impeto disciplinato di qualche manipolo; quegli sovrasta a giudici e a patiboli.
Caserio non conosceva Carnot, Angiolillo non conosceva Canovas, Henry non conosceva alcuno nella folla di quel caffè parigino, Lucheni non conosceva l'imperatrice Elisabetta, come uccisero dunque? Le loro spiegazioni non valgono meglio dell'altre, che la gente si baratta per sottrarsi al peso del mistero: l'arte sola potrà forse un giorno spiegarlo, perchè l'arte sola crea attingendo alle profondità dell'inconscio, e come la natura accettando tutti i modi della morte.
Adesso Lucheni e l'imperatrice Elisabetta, questa nella cripta imperiale di Vienna, quello in un carcere di Ginevra si lagnano egualmente del proprio sepolcro. Ella lo aveva chiesto fra la quiete di grandi alberi, inghirlandato di edere e di rose, perchè le lucertole e gli usignoli potessero visitarlo nella primavera; o forse lo sognò talvolta davanti al mare Ionio, sul gran sasso di Leucade, dal quale Saffo cantò l'ultima volta