Dal cellulare a Finalborgo. Paolo Valera

Dal cellulare a Finalborgo - Paolo Valera


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arrestati a domicilio. Si capiva, dal tutt'assieme, che erano pesci grossi perchè non si mischiavano con gli altri.

      Più tardi è entrato un signore con tanto di catena d'oro. Ci disse che era stato arrestato sullo stradone di Abbiategrasso. Veniva a Milano in carrettella e non sapeva dei disordini. Gli hanno domandato in che mondo viveva. Abbiategrasso non era mica in America. Lui era come me. Non leggeva mai i giornali e ignorava tutto quello che avveniva. Io sono buono di leggere, ma faccio troppa fatica. Cinque minuti dopo, le parole mi vanno insieme e mi pare di essere ciocco. Non sono poi curioso. A me importa proprio niente di sapere gli interessi degli altri. Ho anche troppo da fare a tirare innanzi la mia baracca, senza darmi dei grattacapi.

      Dove sono rimasto? Al signore della carrettella. Egli aveva una micca in saccoccia. Gliela avevano fatta comperare i carabinieri a porta Ticinese per paura che morisse di fame. Io cominciavo proprio ad aver fame. Speravo di vedere mia moglie con la sporta. Povera donna. Mi voleva bene e io rimanevo nel camerotto a perdere il tempo.

      Alla mattina, con un po' d'aria fresca e un po' più di luce, sembravamo tanti ubbriaconi che avessero passata la notte in un porcile, o in un acquavitaio che ci avesse rasi come una damigiana. Eravamo bianchi come i cadaveri. Il più allegro era sempre il precettato. Egli era rimasto in manica di camicia e con la sua giacca aveva coperto le gambe di uno sconosciuto che tremava dalla febbre e dalla paura. Gli ho dato la pipa da spazzare una seconda volta. All'odore del luogo ci eravamo abituati. Non c'era che l'impazienza di uscire. Chi doveva correre al lavoro, chi aveva degli affari importanti e chi si sentiva voglia di sgarbugliarsi gli occhi con del caffè caldo. Prima delle otto eravamo ricaduti nella disperazione. Perchè non ci si lasciava andare? C'erano gli scalmanati per l'uscita che non si lasciavano acquietare se non dicendo loro di rammentarsi che non avevano da pensare a noi soli. Alle otto venne il carceriere a domandarci se volevamo qualche cosa. Quasi tutti gli domandarono se non era tempo di liberarci. Ci disse di fare presto, che lui aveva tre camerotti zeppi di gente che aveva fame. Allora fu una gara, e il carceriere dovette pregarli di andare adagio. Chi comandava del caffè e dei sigari, chi del pane e salame e chi una frittura di fegato col limone. C'erano signori che si ricordavano del limone in un momento da strapparsi tutti i capelli dalla testa! Non ci furono che due che non gli diedero seccature: io e il precettato. Eravamo tutti e due senza il becco di un centesimo. Venuta la distribuzione, si sono ristorati come hanno potuto. Mangiavano con le mani e stracciavano il pollastro coi denti. C'erano di quelli che avrebbero voluto il tovagliolo. Ringraziate Dio, o brontoloni, si diceva, che avete il fazzoletto.

      Le persone di cuore non possono mangiare senza dividere con coloro che non mangiano. Io e il precettato abbiamo finito per menare i denti più degli altri. Della gente buona ce n'è dappertutto. Ci fu quel signore col cappellaccio, che dicevano avesse fatto la barricata con le statue, che mi diede il suo vino. Egli non aveva voglia di bere. Grazie.

      Non so come si faceva a non crepare. Ci mettevamo i gomiti sullo stomaco per mancanza di posto e tenevamo la mano sulla schiena di quelli davanti per non buttarci addosso le cose brodose.

      I vestiti più bene offrivano i sigari a quelli che non avevano da fumare. In pochi minuti eravamo tutti in una nube, l'uno non vedeva il naso dell'altro. Il fumo purgava il camerotto che alle volte puzzava come una latrina. Verso le dieci o le undici ore eravamo stufi, stufi, più che stufi. Non si sapeva niente, nè se ci si lasciava andare, nè se ci si mandava in qualche luogo.

      Il caldo era diventato eccessivo. Si sgocciolava. Finalmente si aperse un'altra volta l'uscione e ci si fece uscire a due a due. Fuori dell'uscita c'erano dei signori in borghese che a certi individui lasciavano andare degli scapaccioni. Probabilmente li conoscevano. A me non si è fatto nulla. Chi male non fa, paura non ha. Mi si fece salire in un carrozzone e mi si condusse qui al Cellulare. Nel carrozzone credevo proprio di lasciarvi la pelle. Nella mia celletta eravamo in tre. Ci mancava il respiro. Provai una grande contentezza quando mi trovai nel cortile del Cellulare.

      Me l'ho scampata bella. Dio non c'è per niente.

      __Il soccorso.__

      È una scena piangevole che potete vedere ogni mercoledì e ogni domenica, tra le dieci e la una, sulla piazzetta Filangeri, dinanzi l'edificio della sventura sociale. Ma in un giorno o nell'altro non troverete mai la folla delle giornate di Bava Beccaris, quando ciascun cittadino aveva paura di non essere più cittadino e ogni donna poteva essere disgiunta dall'uomo da un ordine imperativo o da una mano brutale.

      La mia pagina è una fotografia senza ritocchi di una di queste domeniche.

      L'orologio di un campanile suonava le otto e il sole bruciava le cervella. Sul piazzale si vedevano alcune carriole cariche di frutta acerbe o sfatte, di dolci perseguitati dalle mosche e di cose mangerecce coperte di polvere. Il portone traduceva un corpo di guardia improvvisato in una città insorta. Un portone coll'andirivieni della gente che fa paura. C'erano soldati in piedi, soldati che riposavano sulla paglia sternita nei fianchi, soldati che entravano e uscivano, soldati che si asciugavano la fronte e si aggiustavano la giberna sul ventre. Si vedevano andare e venire secondini, guardie di finanza, delegati, questurini, carabinieri, ufficiali, autorità carcerarie, autorità militari—tutte persone che ricordavano il momento, persone dalla faccia feroce, persone che passavano come ventate di collera, persone pronte a venire alle mani col primo che avesse detto una corbelleria.

      L'ufficiale di guardia pareva, col pensiero, a spasso. Con la ciarpa azzurra a tracolla, seduto sulla sedia addossata al pilastro con una gamba sopra l'altra, si ninnolava buttando in alto il fumo diafano della sigaretta.

      Le donne giungevano sole e a gruppi con i fagotti, i canestri e le corbe piene di roba e si appoggiavano al muro della carcere o andavano ad occupare i sedili di granito della piazzetta o si aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia al bastione. Tra le popolane dal faccione prosperoso e dalle maniche rimboccate sull'avambraccio bronzato, c'erano vecchie che si reggevano a mala pena in piedi, teste che riassumevano la primavera nella chiarezza mattinale e figure dalla faccia bianca o scolorata che uscivano dalla moltitudine con le loro vesti e i loro cappelli neri come tante ditte di un ufficio mortuario.

      Imperava il dolore. Ah, se si potesse uscire dal dolore come si esce dalle porte cittadine! Il dolore distruggeva la ripugnanza delle vestite bene per le vestite male e assorellava le donne colpite da una sventura comune. Tutte queste mamme, tutte queste spose, tutte queste amanti, tutte queste sorelle vedute assieme storcevano il cuore e facevano venir sulle labbra una parola tragica, una bestemmia brunita dal rancore, una maledizione che si rompeva nella testa col suono della lastra di metallo che la martellata manda in frantumi. Riproducevano l'afflizione, l'ambascia, il dietroscena domestico, il naufragio femminile, la devozione sublime delle donne affezionate agli uomini chiusi laggiù, oltre il portone, al di là dei cancelli, negli sgabuzzini del lugubre edificio imbevuto delle lagrime dell'esercito della sventura, che ha patito più del Cristo in croce. Nei loro occhi non era l'ardimento. Nei loro occhi era la stupefazione, lo sbalordimento, l'umiliazione. Povere donne! Erano donne abbattute, costernate, vinte dal supremo cordoglio che non le lasciava disfogare la piena del loro martirio.

      I carrettoni chiusi scompigliavano e buttavano manate di nero sulla tela lugubre che s'allargava a ogni minuto. I traballamenti delle ruote andavano sul cuore della moltitudine come fitte che si sprofondavano nelle ferite palpitanti e sollevavano in tutti il vespaio delle supposizioni. A ogni sussulto si correva involontariamente col pensiero nelle cellette del veicolo che accarezzavano l'arrestato come la guaina accarezza la lama, a palpeggiare gli incassati come se si avesse avuto paura che si fossero rotta la testa o stessero in lotta coll'ultimo alito di vita. Chi saranno? E l'interrogazione faceva rabbrividire. Forse saranno dei ladruncoli o dei rivoluzionari o degli innocenti usciti dalle braccia della famiglia, rimasta in casa a piangere la loro sciagura! E i veicoli della tortura scomparivano e lasciavano le donne più avvilite di prima.

      Questa campana! Si aspettava la campana del soccorso, la campana che doveva far dimenticare ai cellularizzati la smisurata intelligenza malvagia degli uomini, degli uomini che hanno per idealità il male, la campana che consolava lo stomaco di chi mangiava poco e male. Fate presto, in nome del Signore. Spalancate il cancello, prendetevi la corba delle vivande divenute fredde lungo la strada, divenute immangiabili aspettando qui sul selciato due ore, tutto un secolo. Siate buoni, siate


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