Dal cellulare a Finalborgo. Paolo Valera

Dal cellulare a Finalborgo - Paolo Valera


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lo si trovò sdraiato sulla branda, con la coperta fin su intorno al collo e la testa come affondata nel guanciale. Pareva addormentato, Il sangue gli aveva ammantata la faccia di un acceso bruno. Il fazzoletto bagnato con lo stringimento dell'uomo determinato a morire gli era entrato nella carne e gli si era perduto sotto il gonfiore. Tagliatogli il laccio tirò una fiatata che gli sollevò il petto. Egli era ancora tepido. Sul muro col lapis aveva scritto queste parole commoventi:

      «Moglie mia, muoio innocente. Vieni a trovarmi al cimitero.»

      Alla mattina del lunedì la Corte andò alla sua cella a redigere il verbale del suo suicidio, e la direzione mandò il cadavere a Musocco.

      Le prove contro di lui erano schiaccianti. Incapace di resistere al fuoco dei testimoni, volle morire lasciando credere alla persona che gli era forse ancora cara che egli moriva vittima di un'accusa infame.

      Non si capisce come un edificio di circa mille persone possa tirare innanzi senza un medico in casa. Una volta passata l'ora della visita medica, potete essere presi dai dolori di pancia, indemoniati da un'emicrania, disturbati dai crampi allo stomaco o istitichiti fino alla soffocazione da qualche porcheria che avete ingollato, non c'è più cane che si commuova del vostro malanno.

      Pauroso di morire premete il bottoncino, fate cadere la banderuola per avvertire la guardia che avete bisogno di lei e poi le dite che state male, molto male.

      —Non sarà niente. Domani mattina fatevi annunciare al medico.

      —Signora guardia, non posso aspettare fino a domani. Mi sento morire ed ho come un martello nella testa che mi dà degli stiramenti nervosi fino al collo. Mi faccia la grazia di chiamarmi il medico. Veda come sudo. Sudo come in un bagno a vapore. Favorisca dirlo al direttore.

      La guardia, se è buona, chiude l'uscio adagino dicendovi di avere pazienza che domattina sarete uno dei primi. Se è invece di quelle che fanno il mestieraccio senza sentire i dolori degli altri, vi scuote con una sfuriata di parole che vi lasciano tramortito e vi chiude l'uscio in faccia, dicendo che mancherebbe che si desse ascolto a tutte le frignate.

      —Non dovevate andare in prigione, se eravate ammalato. Andate là che non morirete. Non è l'anno delle bestie cattive!

      Al passeggio non parlavamo che di ammalati, di medici e di infermieri. I miei compagni erano d'accordo che non c'è carcere o reclusorio o ergastolo che abbia un'infermeria che s'avvicini a quella delle persone libere di due o tre secoli sono. È un'infermeria a celle o a stanzoni che passa sopra qualsiasi precauzione.

      —Quella a celle deve essere preferibile.

      —Illusione! È un'illusione di credere che quella a celle dia maggiore sicurezza di quelle a letti a poca distanza l'uno dall'altro. Forse voi non siete mai stato in infermeria. Io ci sono stato e mi sono convinto che è migliore quella a stanzoni e a finestroni. Almeno in uno spazio grandioso, coll'aria che si cambia più rapidamente, si respira più liberamente e si ha la consolazione di essere con qualcheduno.

      —Convenite che in quella a sistema cellulare c'è meno pericolo d'infezione.

      —Illusione, caro mio. Trovate un pretesto qualunque, fatevi condurre di sopra e scenderete del mio parere. Voi vedrete che le celle angustissime—larghe per un letto, col passaggio di un uomo che non sia troppo grosso—sono allineate su due file di un corridoio largo poco più di un metro. Avete capito? Gli ammalati, divisi dalle pareti, vivono in uno stesso ambiente e respirano la stessa aria.

      —Con delle malattie contagiose state fresco.

      —Così è del sistema curativo. V'immaginate un medico enciclopedico, che sa tutto, che non consulta che sè stesso, che si sbarazza in un'ora di cinquanta o sessanta ammalati raccolti nell'ottagono, alla presenza di tutte le guardie che vanno e vengono, di tutti i prigionieri che passano e ripassano, e che deve limitare le sue ricette a cinque giorni di latte, a delle polverine innocue o al pane bianco con tre dita di una carne soriana che non si lascia masticare che dai denti d'acciaio, in quattro dita di brodo così detto o di minestra così detta al brodo? Volete la mia opinione? Prima di abbandonarvi al delitto interrogate la vostra salute. Se non siete sanissimo, curatevi, evitate il pericolo di andare in prigione.

      —Me l'ha detto anche la guardia, stamane. Non dovevate venire in prigione.

      L'altro, quello coi capelli ritti, fece osservazioni di un altro genere.

      —Non sono così pessimista, ma convengo che in tutto questo sistema c'è qualcosa di sbagliato. Vi racconto quello che è avvenuto a me in otto mesi di prigionia. Ho notato, prima di tutto, che per andare in infermeria bisogna essere più che moribondi. Il medico è sempre riluttante a mandarvi in una cella d'infermeria. E io non posso dargli torto. Una volta che egli vi accorda il permesso di sdraiarvi sulla branda, si sta meglio nella cella del raggio. In quest'ultima c'è più luce e aria più pura. Il guaio grave, secondo me, è che se m'annuncio ammalato mi si punisce sopprimendomi l'ora d'aria. Come, il mio malessere è forse dovuto alla mancanza di moto e d'aria libera e voi mi tappate in cella tutte le volte che vado dal medico?

      Al detenuto che non abbia studiato bene il regolamento possono capitare giornate dolorose. La guardia di servizio tra le sei e le sette vi domanda: ammalato? qualche volta, salta una cella senza accorgersene. E spesso registra il trentatrè invece del trentacinque. Non c'è più rimedio. Bisogna stare attento domattina e suonare se non la si vede.

      La settimana passata mi sono annunciato ammalato: la guardia mi rispose:

      —Incominciate a mettere fuori la vostra pulizia—cioè a metter fuori il catino coll'acqua sporca, il vaso da notte e la spazzatura della cella.

      Sono ammalato e si esige da me il servizio della pulizia!

      Il quarto compagno è un galeotto. Egli è già stato in galera e ha fatto il giro di parecchie carceri giudiziarie.

      —L'infermeria carceraria è una nota dolorosissima. A Milano gli ammalati sono trattati, direi quasi, meglio che negli altri luoghi. Ma qui e dappertutto ho dovuto convincermi che nei casi d'urgenza si muore come cani. Vi narrerò due casi che non ho ancora dimenticati. Ero a Bologna al tempo del processo Luraghi, Favilla, Platner e non so chi altro. Il Luraghi era alloggiato nella mia stanza con altri e il Platner dimorava in infermeria perchè sofferente di non so quale incomodo. Erano le nove di una notte buia. Qualcuno di noi russava e qualcuno di noi si voltava sui fianchi per addormentarsi. Sentimmo un grido d'uomo spaventato o d'uomo colto da un malore.

      —Guardia! guardia!

      La guardia non era vicina o era altrove o non sentiva.

      —Guardia! guardia!

      La voce del detenuto era diventata rantolosa.

      —Guardia!… guardia!…

      Dopo un quarto d'ora di questo lamento che ci lacerava il cuore sentimmo dei passi che andavano verso la cella del disgraziato.

      —Che c'è? gli domandò la guardia.

      —Sono ammalato…. muoio! Signore, fatemi morire!

      —Adesso vado a prendere le chiavi.

      Di notte le chiavi delle carceri sono in direzione. Nessuna guardia può aprire le celle. La parola lenta e straziante del disgraziato discendeva dal terzo al primo piano come un gemito che rimescolava il sangue.

      —Muoio….

      La guardia era in viaggio. Doveva discendere al piano terreno, passare una corte che non è mai finita, andare in ufficio, svegliare la guardia scelta in possesso delle chiavi e rifare la strada e le scale fino alla cella di colui che moriva.

      Non esagero dicendo che ci vollero venti minuti. Le guardie, abituate a questi avvenimenti quotidiani o settimanali, ci fanno il callo.

      Mezz'ora dopo sentimmo una moltitudine di piedi che discendeva e faceva tremare le pareti della scala come gente che portasse un peso enorme sulle spalle.

      Il mio vicino di letto mi disse sottovoce:

      —Lo portano via!


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