Dal cellulare a Finalborgo. Paolo Valera
dalla parte più larga del passeggio ha un lastrone di ferro che impedisce di vedere il viso di chi passa. I muri divisori sono alti quattro metri, così che i passeggiatori di un passeggio non possono vedere, nè capire quello che dicono, i passeggiatori di un altro.
In venti raggi passeggiano dagli ottanta ai cento individui. Una volta che i raggi sono popolati, la guardia discende la scaletta che conduce alla sua altura con una manata di fidibus, li accende e li distribuisce, di raggio in raggio, ai fumatori.
—Fuoco!
Chiusi tra queste pareti vi accorgete subito che il detenuto che possegga un pezzo di matita lascia traccia della sua passeggiata, quantunque sia proibitissimo insudiciare o scrivere sui muri. In questi segni grafici io non vedo nè il grafomane, nè il delinquente. Vedo semplicemente l'individuo che dice sul muro quello che non può dire su un pezzetto di carta. Supponete che un condannato di ieri possa credere che i suoi amici, oggi o domani, passeranno per lo stesso passeggio. Non esiterà un minuto a scrivere: «Amici, salute. Condannato a 14 anni e otto mesi. Uscirò il 1913. Coraggio! Salutatemi la Nina. Addio.»
Si è detto che la muraglia è il libro della canaglia, perchè vi si leggono ideacce che non possono nascere nel cervello dei galantuomini. È dubbio. Io vorrei vedere costoro per qualche mese o qualche anno nello stesso ambiente. A nessuno di noi, liberi, viene in mente di scarabocchiare sui muri i «morte ai boia!» State in prigione e vi vedrete un giorno o l'altro trascinati a manifestare il vostro odio contro la spia che vi avrà denunciato, o al giudice per salvarsi, o alla guardia per ingraziarsela, o al direttore per ottenere qualche favore. Le stesse guardie carcerarie, le quali sovente sono vittime dello spionaggio, partecipano di questo sentimento che erompe e trova il suo sfogo sulle muraglie delle casematte, degli ergastoli, dei bagni di tutto il mondo. In Francia i delatori sono perseguitati sulle muraglie come in Italia.
—«Mort aux vaches!»
Ci è toccata la prima ora di passeggio. Si esce volentieri alla mattina, specialmente quando si ha avuto una notte fosforescente come quella passata. Non sarebbe mancata che l'imprudenza di un solfanello per metterci in mezzo alle fiamme. I miei compagni sono quelli di ieri.
Passeggiavano col piacere delle persone che godono mezzo mondo a sentirsi in mezzo all'aria fresca. Il detenuto che ha i capelli ritti come setole piantate nella testa, spingeva innanzi la faccia per sentirsela alitare sugli occhi. Andavamo in su e in giù fumacchiando e sparlando della direzione.
Un compagno ci raccontava che in un libro, che gli aveva prestato il cappellano, era detto che al bagno di Tolone i forzati avevano due arie di un'ora ciascuna. Qui invece ci si lesina anche quella poca ora regolamentare.
Col sistema della direzione che ci conta l'ora dal primo tocco della campana d'uscita al primo tocco della campana d'entrata, il prigioniero del Cellulare non sta mai a passeggio più di cinquanta minuti. Non c'è errore e ve lo dimostro. Siamo in un raggio di cento persone. Ci sono due o tre guardie di servizio. Le celle non si possono spalancare che tirando indietro il catenaccio. Mettete quattro o sei mani ad aprirle tutte, e poi ditemi se gli ultimi non devono uscire otto o dieci minuti dopo. La rientrata ha gli stessi inconvenienti. Perchè i primi a uscire sono anche i primi a rientrare. Il regolamento non è oscuro. Dice chiaro e tondo che ci si deve, nei giorni feriali, «almeno un'ora» e maggior tempo «alla domenica». Invece alla domenica ci si rubano degli altri minuti. Nei giorni domenicali non si sta mai a passeggio più di tre quarti d'ora. La ragione è che si aumentano i servizi con lo stesso personale di sorveglianza. È facile capire perchè non si protesta. Prima di tutto non è possibile trovarsi d'accordo in un carcere che ha tanti detenuti che vanno e vengono in un giorno. Poi si farebbe del male alle guardie che stanno più male di noi che abbiamo svaligiato o assassinato qualcuno. Hanno un servizio di diciassette o diciotto ore sulle ventiquattro e pagano, con le trattenute sullo stipendio ridevole, i pisolini notturni, e le mancanze che fuori di questo luogo farebbero storcere le budella dalle risa.
La barba lunga mi ha sempre fatto schifo. Al largo me la faccio radere una volta al giorno. In questo periodo di Bava Beccaris ho dovuto lasciarmela crescere quattordici giorni. I peli mi pungevano come tante pagliuzze.
Adesso sono sbarbato e non mi pento. Ma vi so dire che ho passato un brutto momento. È entrato nella mia cella un uomo che mi pareva avesse gli occhi lucidi del bevitore. Il suo alito puzzava di grappa e le maniche della sua giacca sucida erano lastricate del pattume del mestiere. A ogni movimento sputava in terra la saliva negra della cicca che egli rivolgeva come un boccone sotto i denti. Mi ha messo al collo uno straccio sporco come un cencio di cucina. Gli aveva servito per sbarbare un raggio intiero. A ogni rasoiata sudavo come sotto un'operazione chirurgica. Avevo sempre paura di vedermi cadere una sleppa di carne insanguinata. Sbatteva sul pavimento, che avevo reso lucido con le mie braccia, le ditate della spuma coi peli che si era accumulata sul suo rasoio. Il suo modo era spiccio. Dalla eminenza dello zigomo passava per la guancia come una strisciata di rasoio.
Lascia peli dappertutto, specialmente dove il rasoio non può scorrere liberamente, come nella pozzetta del mento.
Mi brucia la pelle della faccia come se fosse stata scorticata e ho ancora per il naso l'odore putrilaginoso del suo sapone orribile.
Stamattina riandavo la canzone:
C'est aujourd'hui mon jour de barbe
con piacere.
Alle undici maledivo il barbitonsore del Cellulare come un rasoio di punizione. Egli rade e punisce.
Mi sono messo in corrispondenza con uno scarpa internazionale che ha la cella al pianterreno. Fu lui che mi scrisse per dirmi che aveva letto tanti anni sono un mio libro.
Egli è il Rousseau dei borsaiuoli d'alto rango. Si sbottona senza reticenze. Egli è quello che è, e non ha bisogno di far misteri con uno che egli chiama un «dottore sociale». Non ha fatto studii, ma ha letto e viaggiato molto. In un bigliettino di ieri l'altro mi faceva sapere che non voleva nè la mia commiserazione, nè il mio compianto. «Il delitto della vita mi ha frustato e fatto saltare al di là della sbarra del codice penale, ed io non farò mai sforzo alcuno per rientrare nell'orbita della legge.»
Egli è divenuto la mia miniera. Mi sono attaccato a lui con la tenacia dei cercatori d'oro capitati in una terra aurifera. Per vederci egli mi scrisse di piegarmi sulle calcagna domattina al passeggio, vicino alla cancellata, in uno dei primi raggi, o di fare di tutto, con un pretesto qualunque, per mettermi fra gli ultimi. Indosserà un gilet e una giacca di velluto di seta e terrà il cappello duro in mano.
Mi sono stati raccontati gli ultimi particolari di Enrico Corio. Egli era un tipaccio di giovine che si lasciava concitare dalla libidine dinanzi la carne del suo sesso.
Dopo avere straziato il ragazzo fino alla strangolazione lo chiuse, nel luglio del 1896, in una fogna, credendo di seppellire con esso anche il delitto.
Al Cellulare, durante la lunga istruttoria, egli era preoccupatissimo di farsi credere innocente. Di carattere piuttosto esaltato, dava in ismanie, spesso, per convincere la guardia di servizio che egli era veramente mondo di ogni delitto. E quando gli si diceva che se era innocente non doveva avere paura, finiva per disperare della giustizia.
L'accusa non gli impediva di mangiare tutti i giorni con appetito sempre crescente.
Occupava la cella 53 del sesto raggio. Terminata l'istruttoria nell'aprile del 97, e saputo che avrebbe dovuto comparire dinanzi i giurati, divenne inquieto. Pare che non fosse più sicuro della sua innocenza.
Prima si lasciava trasportare e cercava di convincere le guardie che non sarebbe mica il primo che si manderebbe in galera innocente. La direzione, che temeva un tentato suicidio, gli mise alla spia una sorveglianza speciale e gli fece togliere dal letto le lenzuola che gli potevano servire per appendersi all'inferriata.
Era domenica, tre giorni prima del processo. In domenica le guardie sono spostate e sopraccariche di lavori. Il Corio aveva mangiato più del solito, perchè dopo il pranzo del bettoliniere gli era giunto anche il soccorso che gli aveva mandato o portato la moglie. Alle tre del pomeriggio era ancora vivo. La guardia era entrata e lo aveva sorpreso che stava lavando il fazzoletto senza sapone.