Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire. Belgioioso Cristina

Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - Belgioioso Cristina


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minori ostacoli fralle popolazioni degli antichi stati Romani che non fra quelle del rimanente d'Italia. I già sudditi della chiesa hanno sofferto assai, non solo moralmente, ma fisicamente eziandio e stanno ora aspettando pazientemente il compenso del lungo passato. — Materialmente la sorte loro deve aver peggiorato coll'acquisto della libertà poichè sono ora gravate di forti imposte, e nessuna nuova via fu ad essi aperta per guadagnare il denaro che pagano allo stato. — Eppure nessuno sintomo di malcontento apparve mai in quelle provincie. — I Romagnuoli non hanno speso nè in puerilità nè in frivolezze la esuberante gioja del loro riscatto. — Se ne rallegrarono e se ne rallegrano tuttavia con maschia gravità, come gente che non si crede in diritto di ottenere gratuitamente i due più preziosi doni a cui un popolo possa aspirare, la libertà e la indipendenza ma è preparato invece a pagarli a caro prezzo. — Tali erano nel 60; tali sono oggi e gli Italiani tutti potrebbero senza derogare prendere esempio dal contegno dei già sudditi della Chiesa.

      Delle provincie Napoletane e delle loro popolazioni si è parlato assai, e parmi, dietro osservazioni troppo superficiali. — Il brigante feroce superstizioso e stupido, ed il Lazzarone inerte più che mezzo ignudo, e per tre quarti selvaggio, sono i due tipi dietro i quali ne raffiguriamo generalmente i Napoletani, seppure non vi si aggiunge un Principe o un Duca senza denaro, giuocatore, libertino, duellista e poco amante della guerra. — Non nego che tali tipi si incontrino più frequentemente nelle provincie Napoletane che altrove; ma in questi si spiegano ingranditi ed esagerati i difetti di tutti i popoli meridionali, e di quelli in particolar modo che non conobbero mai i vantaggi risultanti dalle virtù a tali difetti opposte. — Ma siffatte esagerazioni dei difetti comuni ai popoli meridionali, non sono da imputarsi al popolo Napoletano in massa. — Se v'ha una provincia d'Italia in cui la libertà e la indipendenza abbiano già prodotto dei risultati evidenti, oltre la costruzione di nuove strade, di nuovi ponti e di nuovi edifizi, quella è la provincia o per dir meglio lo stato Napoletano. Il tipo Lazzarone che viveva di maccheroni e di angurie, e dormiva in un canestro, è quasi interamente scomparso, trasformandosi e confondendosi nei pescatori. — L'immondezza delle pubbliche vie di Napoli degli atrj, dei cortili e persino delle scale dei più sontuosi palazzi scomparve anch'essa vinta dalle cure della edilità municipale, e del concorso che la immensa maggioranza di ogni classe di popolo gli prestava che se tale concorso non avesse esistito, o nulla o a ben poca cosa avrebbero giovato le misure della edilità.

      Nel corso dei sei anni passati per Napoli sotto il benefico, ma talora pericoloso regime della libertà, il popolo Napoletano non ha tentato una sola volta di abusarne. — Desso ha accettato le leggi, i regolamenti, le istituzioni, i decreti che gli furono imposti, sottomettendosi al peso ed agli inconvenienti degli uni, e cavando vantaggi da altri con una spontanea docilità, ed una costante prudenza che da lui non si aspettava. — Si è sempre parlato della innata vigliaccheria del Napoletano, ma qui ancora i vecchi motteggi, ed i rancidi pregiudizii ebbero una solenne mentita. — La guerra del 66 fu combattuta dai Napoletani quanto da tutte le altre popolazioni Italiane, e nessun episodio fu narrato sin qui che testimoniasse della timidezza imputata ai Napoletani. — Le nostre sventure durante quella guerra furono la conseguenza della poca esperienza o della incapacità di alcuni capi, non già del difetto di valore della bassa forza; e fra i generali di una certa età e di un certo grado, quello che forse più d'ogni altro diede di sè, del suo sapere del suo valore prove migliori, si fu un generale Napoletano, il Nunziante, Duca di Mignano. — La classe che in Napoli si è mostrata sin qui meno intelligente dei proprii interessi, e meno tenera di quelli del paese, è la così detta aristocrazia. — In Napoli si trovano meglio distinte che altrove le tre classi sociali che compongono oggidì le nazioni civili; la aristocrazia cioè; la borghesia, o classe di mezzo, ed il popolo. — Sotto il dominio dei Borboni, la prima e l'ultima erano le predilette della corte; quella perchè rassomigliava e conseguentemente simpatizzava di più coi membri della reale famiglia; sì gli uni che gli altri ignoravano presso che tutto ciò che avrebbero dovuto conoscere; consideravano questa loro ignoranza come un privilegio della elevata loro condizione, e guardavano con ischerno e compassione agli sforzi che le classi inferiori facevano per acquistare il sapere ossia come quelli dicevano per guadagnarsi il pane. — La famiglia reale e la aristocrazia avevano comuni gli interessi, le speranze, i desiderii, i timori. — Il godimento materiale della vita, l'incremento delle loro ricchezze; la soddisfazione della puerile loro vanità componevano lo scopo della loro esistenza. — La nobiltà Napoletana stava attaccata alla stirpe Borbonica, come a quella inesausta sorgente di godimenti, e di onori che ne accarezzavano la vanità; mentre il sovrano e la famiglia di lui si specchiavano nella nobiltà, come in quella classe di persone che si divertiva dei divertimenti loro, nulla desiderava di ciò ch'essi temevano, e dalla cui bocca non esciva parola che contrastasse coi loro pensieri.

      La classe infima della plebe Napoletana occupava il secondo posto nelle reali affezioni. — Romorosa nelle sue dimostrazioni, ma inocua nelle sue azioni, la plebe dei così detti Lazzari fanatica come presso che tutte le ignoranti moltitudini, era assolutamente in balìa del clero e dei frati che la volgevano e rivolgevano a loro capriccio. — Il re sapeva qual uso facesse il clero di tanto dominio, e si maneggiava in modo da tenerselo amico. — I Borboni d'altronde superstiziosi anch'essi non meno della plebe, erano pure un docile strumento nelle mani del clero, la cui ignoranza presso che eguale a quella dei principi e dei lazzaroni, gli permetteva di prestar qualche fede ad alcune delle cose ch'esso insegnava come dommi religiosi. — Tutte queste ignoranze erano fra di esse alleate, e dirette ad un medesimo fine, il perpetuarsi della società del medio evo, e l'impedire ogni progresso sì intellettuale, come morale o materiale. — Perciò ottenere il clero aveva bisogno dell'appoggio reale; ed il re non poteva sostenersi senza quello del clero. — Consapevoli l'uno e l'altro di tale reciproca dipendenza, non ad altro tendevano che a trarne vantaggio nel miglior modo possibile, per difendersi da quel formidabile progresso che agli occhi loro rappresentava il più orrendo cataclisma, la distruzione dell'edifizio sociale, lo scatenamento di tutte le fiere del creato sotto nome di filosofia, di diritto, di civiltà, di libertà, di indipendenza, di eguaglianza, di tolleranza, di filantropia, ecc. ecc; e per catastrofe finale, una guerra accanita contro il sacerdozio, cioè contro Dio e la religione, un macello di frati e di monache, il saccheggio degli altari, e le porte dell'inferno spalancate per inghiottire la moltitudine delle anime feroci ed empie i cui corpi più non potevano contenerle. — Per coloro che di buona fede vedono il moderno incivilimento sotto tale aspetto non è da meravigliarsi se mettono tutto in opera per impedirne il corso. — E non pochi fra i nemici della moderna civiltà, sono di buona fede, o per lo meno credono ciò che venne loro insegnato, e trovando in tale credenza il loro vantaggio non si sforzano di scoprire se riposi quella sul vero o sul falso.

      Pei Borboni, per la nobiltà e pel clero napoletano, il progresso era personificato nel ceto di mezzo ossia nella borghesia. — Una certa somma di coltura intellettuale è necessaria per formare degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, e persino dei militari; e sebbene i tre corpi che governavano in Napoli avessero volontieri fatto di meno di tutte quelle dotte professioni, e si fossero contentati di non avere sotto di essi altri che lazzaroni, pure conoscendo che la totale soppressione del ceto medico e della sua coltura intellettuale era cosa impossibile, dessi si limitarono sebbene con rammarico, a combattere questi rappresentanti del sociale progresso, perseguitandoli, ponendo ogni sorta di ostacoli sulla loro strada, mantenendoli per quanto il potevano nella condizione stessa in cui si erano trovati gli avvocati, i medici, gli ingegneri, ecc. ecc. dei secoli passati, ed aizzando contro di essi i pregiudizii e le passioni indomite della plebe.

      Sintanto che le cose rimanevano in quello stato, il Re si teneva per certo di trovare, quando ne abbisognasse, il popolo armato in sua difesa e nemico dei suoi nemici; e la nobiltà siccome il clero avendo gli interessi comuni colla corte, fidavano anch'essi nelle armi che avrebbero consegnate ai lazzari in un momento di crisi rivoluzionaria e si confortavano pensando che il popolano così affezionato al suo Re e così devoto al clero avrebbe resistito a tutte le seduzioni del partito liberale.

      Già sul finire dello scorso secolo, i lazzari si erano mostrati quali li volevano il Re, la nobiltà ed il clero, e se nel Maggio del 48 il sangue cittadino non fu sparso in tanta copia, quanto nei giorni di Championnet, non fu quella parsimonia da attribuirsi alla clemenza del popolo, ma bensì alla debolezza della resistenza che ad esso opposero i liberali, che in picciol numero erano rimasti in Napoli, mentre pressochè


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