La donna fiorentina del buon tempo antico. Isidoro Del Lungo

La donna fiorentina del buon tempo antico - Isidoro Del Lungo


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e popolane senesi, che distribuite in squadre con divise a tre colori, violetto rosa e bianco, lavorarono alle fortificazioni di quell'ultimo baluardo della democrazia toscana; e meritarono che un gentiluomo francese, il Montluc,[3] rendesse loro l'omaggio dei prodi. Non ebbe eroine Firenze, o le ha dimenticate. Ma che perciò? La donna non ismentisce nella storia la propria natura e l'ufficio commessole dalla Provvidenza: la istoria sua è (salvo eccezioni, così nell'ordine de' fatti come del pensiero) storia senza nomi, ma di tutti i giorni e di tutte le ore, perchè nessun giorno e nessuna ora passano senza lacrime umane, ed è lei che le raccoglie o le dona; nè senza bisogno di conforti alle battaglie della vita, e dal sorriso di lei ci vengono i più efficaci. Rintracciare tale storia è invero malagevole; ma non più di altre ricerche morali e psicologiche intorno alle umane vicende. E se non le mancano pagine nel mondo antico, dove l'individuo era sì gagliardamente assorbito nella pubblica cosa; se in ciò che di benefico ebbe, contro quella tirannide dello Stato, la violenza barbarica, uno dei simboli della individuale libertà e della umana coscienza rivendicata è appunto la donna; sarebbe illogico, che la storia di lei, nel senso e contenuto suoi veri, scarseggiasse in secoli di civiltà e libertà cristiane, e a noi tanto più vicini e di tanto più agevole investigamento; per modo che dovessimo limitarla alla genealogia delle case feudali o principesche o magnatizie, che sarebbe quasi un abolirla del tutto dai gloriosi annali delle nostre repubbliche. Ben altramente hanno pensato della storia femminile menti elette o sovrane. Il Tommaseo[4] scrisse, che «se prendessimo a considerare la donna quale ce la dipingono via via tutti i poeti gli storici i moralisti, de' varii luoghi e de' tempi, troveremmo in lei quasi l'ideale del secolo»: nè egli era facile adulatore di nessuna potenza. Il Guasti,[5] raccogliendo le lettere d'una madre fiorentina del Quattrocento, spera aver provato con quelle, che «nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo». E il più grande Poeta dell'evo moderno questa idealità della donna, immanente nella storia, raccolse in una vigorosa astrazione chiamandola «l'eterno Femmineo»; i cui splendori un Poeta nostro[6] ha salutati sopr'una fronte regale, che ha corona invidiabile nell'amore unanime del popolo suo.

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      Fiorenza, dentro dalla cerchia antica,....

      si stava in pace sobria e pudica.

      Non cerca sfoggio d'ornamenti,

      È allegrezza e consolazione della casa dov'ella è nata, e che non muterà con quella dello sposo, se non a tempo debito, e contentandosi, essa e l'uomo che riamato ama lei, di dote ragionevole; cosicchè «nè il tempo nè la dote faranno al padre paura». L'austerità del costume le risparmia le frivole cure e gli artifizi procacciativi di bugiarda bellezza: ella «vien dallo specchio senza il viso dipinto»; e «contenta al fuso e al pennecchio», prepara di propria mano le semplici vestimenta al marito. Un solo amore comprende nell'anima sua la convivenza non interrotta con esso, e il luogo del comune estremo riposo nella dolce terra nativa: sentimento che il Poeta chiama «la certezza della sepoltura», e «Oh fortunate!» esclama con una di quelle note che insegna l'esilio. La giovine sposa «veglia a studio della culla», e acqueta e sollazza la sua creatura; mentre la nonna, filando, racconta ai grandicelli le luminose leggende delle origini italiche e della potenza latina,

      favoleggiando con la sua famiglia,

      de' Troiani, di Fiesole e di Roma:

      però che essa, la donna del Comune italiano, indovina e sente che questo è l'erede e il rinnovatore legittimo di quel glorioso passato; e nel nome augusto di Roma, che i fanciulli imparano dalle labbra materne a chiamar madre della loro città, sublima il concetto della patria in quelle tenere menti, e ve lo impronta non cancellabile.

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      Quella donna fiorentina de' secoli XI e XII, nella cui soave ricordanza Cacciaguida si esalta, e le congiunge la memoria della madre sua «ch'è or santa», e i travagli di lei partoriente con la invocazione di Maria; non ha un nome, perchè essa era nella mente di Dante un universale, comprensivo e cumulativo delle figure individue concorse a formarlo. Quella gentile, non d'altri splendori luminosa che della fioca e carezzevole luce delle pareti domestiche, invecchiò presto: poichè poco più d'un secolo separa la realtà storica di lei dal rimpianto che ne suona, come di cosa ormai remota, nei versi del fiorentino proscritto. Ma già ell'era vecchia, e di secoli pur quando generava

      a così riposato, a così bello,

      viver di cittadini, a così fida

      cittadinanza, a così dolce ostello;


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