La vita intima e la vita nomade in Oriente. Belgioioso Cristina

La vita intima e la vita nomade in Oriente - Belgioioso Cristina


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quelli a Milano nella casa del genero, l'insigne patriotta marchese Lodovico Trotti Bentivoglio. Quivi la raggiunse la morte il 5 luglio 1871.

       Tale avevano foggiata il sangue, le tradizioni, l'educazione, i viaggi, la vita multiforme questa che è senza dubbio la scrittrice di maggior levatura che abbia dato Milano alle lettere italiane nella prima metà del secolo XIX. Adoperò, è vero, la lingua francese con frequenza forse ancora maggiore della favella nativa e la maneggiò con facilità per lo meno uguale. Ma anche le sue prose francesi, come queste pagine inviate dalle sponde del Mar Nero ai lettori della Revue des deux Mondes, furono concepite ed, aggiungerei, architettate in italiano. Il periodare più ampio, il colorito più vivo, l'immediata rispondenza della forma agli sviluppi di un pensiero assai spesso nuovo e personale, differenziano a prima vista lo stile della Belgiojoso da quello delle contemporanee francesi sue amiche o rivali. Parimenti, quando ella entrava con passo sicuro nei salotti parigini, fosse pure il cenacolo dell'Abbaye aux bois, spiccava senza possibile abbaglio fra le dame convenute da ogni angolo del nobile sobborgo anche se intinte di pece letteraria come la contessa d'Agoult o madame Jaubert. Parlo sempre di donne perchè, se alla sua generazione l'inatteso riserbo in tanta gara di passioni, l'indipendenza negli atteggiamenti della vita e la vocazione alla politica militante, fecero designare di preferenza Cristina di Belgiojoso coll'aggettivo un po' irritante di «maschia», foemina-vir, a noi che la riguardiamo da una certa ragionevole distanza le stigmate del sesso appaiono chiarissime nella sua carriera e nei suoi scritti. Le ritroverete evidenti leggendo un libro come quello che s'inizia ormai, al voltar di quest'ultima pagina introduttiva. Solo una donna avrebbe potuto esporvi una materia così nuova come i misteri degli harems, chiusi ai viaggiatori dell'altro sesso: ma meglio ancora converrete che era privilegio femminile il cogliere tra gli aspetti della vita orientale quelli più rivelatori dello spirito e del sentimento, fermati e tradotti da una sensibilità particolare che a volte sembra quella di una rabdomante.

      Giuseppe Gallavresi

       Indice

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      Fra i giorni che ho passato in Oriente, me ne ricordo alcuni di un incanto singolare, nonostante le fatiche e le emozioni che li riempirono: sono i giorni di marcie penose, interrotte da soste ancor più penose, che si succedettero dalla mia partenza dall'Anatolia nel gennaio 1852 fino al mio arrivo a Gerusalemme nella stessa primavera. Nel corso di qualche mese mi fu dato osservare, in ciò che ha di triste e al tempo stesso di attraente, la vita orientale, di cui il mio lungo soggiorno in una pacifica valle dell'Asia Minore non mi aveva rivelato che gli aspetti più calmi. Pertanto, quando cerco di raccogliere, di fissare le mie idee sul mondo strano nel quale fui trasportata per un istante, non saprei interrogare più volontieri altri ricordi, fra tutti quelli che mi son portata venendo dall'Oriente. Alcuni episodi staccati di quest'epoca della mia vita potranno forse bastare a giustificare la preferenza con cui il mio pensiero vi si riconduce oggi ancora. Mostreranno, nei tratti essenziali, la fisionomia delle popolazioni che questo viaggio mi ha permesso di osservare, mentre i racconti, sin qui pubblicati, non avevano potuto darmene che un'idea molto inesatta.

      Ad esempio, la Siria, come io l'ho visitata, non assomiglia affatto alla Siria che avevo potuto scorgere traverso ai libri. È ben vero che io ero in condizioni assai più favorevoli della gran maggioranza dei viaggiatori per conoscere tutto un lato importantissimo della società mussulmana, il lato domestico dominato dalla donna. L'harem, santuario dei Maomettani, ermeticamente chiuso a tutti gli uomini, mi era aperto. Io potevo penetrarvi liberamente, potevo discorrere con quegli esseri misteriosi, che i «Franchi» non scorgono se non velati, interrogare alcune di quelle anime di cui non si conoscono confidenze e provocarne di preziose su tutto un mondo ignoto di passioni e di dolori. I racconti dei viaggiatori, così incompleti per ciò che riguarda la civiltà mussulmana, lo sono troppo spesso anche in ciò che concerne la natura e l'aspetto materiale dei luoghi. Essi adoperano molte parole senza spiegarle, di quelle che, in ciò che si potrebbe chiamare la «lingua europea», hanno un significato assai differente dalla loro portata effettiva in relazione agli usi dell'Oriente. Non voglio per altro insistere sulle difficoltà di dare conto di un viaggio in Oriente: non so infatti neppure io se riescirò a superarle tutte quante. Mi par meglio di affrontarle senz'altri preamboli, lasciando al racconto stesso l'incarico di giustificare il narratore.

      I DERE-BEYS — IL MUFTÌ DI SCERKESS

      Una parola anzitutto sul paese nel quale io abito. La valle d'Eiaq-Maq-Oglu (valle del «Figlio della pietra da fucile») si trova ad alcune giornate di cammino dalla città rilevante che ha per nome Angora. Ho fissato la mia dimora in quest'angolo pittoresco e fertile dell'Oriente; da questa valle sono partita per lanciarmi nella vita nomade. Su questa terra, solcata durante tanti secoli da tutti gli eserciti del mondo, dai soldati di Mitridate e di Pompeo, come da quelli di Bajazet e di Tamerlano, non v'è regione, per quanto romita, che non abbia un passato tragico e sanguinoso, e non evochi ricordi funebri e dolenti. Si sono tentati ai nostri giorni sforzi diretti a risvegliare in Oriente la dolce influenza del benessere e della civiltà, ma i benefici della pace non sembrano sul punto di giunger così presto a cancellare quassù le traccie della guerra. Permangono le rovine, ma non appajono ancora gli edifici nuovi.

      La valle d'Eiaq-Maq-Oglu è uno dei luoghi in cui l'impronta del passato è rimasta profonda e l'azione del presente non si rivela che con conati incompleti.

      La borgata più vicina a casa mia si chiama Veranceir[1], nome che significa città distrutta e ricorda sinistre avventure. Al posto di quel borgo, non sono ancora trent'anni, sorgeva una città fiorente, con una popolazione di circa 40,000 anime. Veranceir, munita di buone fortificazioni, era la residenza favorita di un pascià potente, il cui governo, ormai smembrato, ha formato due o tre provincie. Comandava alle città di Bolo, di Angora, di Scerkess, d'Eraclea, ecc.; ma il signore di quelle grandi città le lasciava volontieri per venire a cercare il riposo nella vallata verde, in mezzo alla quale sorge Veranceir, in riva al fiume che ne bagna i ridenti giardini. A questa predilezione del pascià Osman, Veranceir andò debitrice della sua prosperità, ahimè quanto effimera!

      Mentre Veranceir così prosperava la Turchia obbediva al Sultano Mahmud[2], che proseguiva la sua opera di rinnovamento fra lotte sanguinose. La dominazione dei Dere-beys, feudatari militari in perpetua rivolta contro il gran signore e non rifuggenti dal fargli la guerra colle truppe reclutate nel loro feudo, era una di quelle vestigia dell'antico sistema turco che Mahmud riteneva necessario distruggere. Quasi tutta l'Asia Minore era divisa fra alcuni pochi di questi beys, buoni principi in fondo, per quanto male intendessero i loro doveri verso il sultano. Essi incoraggiavano fino ad un certo punto l'agricoltura e il commercio ed i loro interessi non erano sempre contrari a quelli dei loro popoli. La guerra sostenuta dai Dere-beys contro il sultano imponeva certo agli abitanti onerose gravezze; ma i capi ribelli non trascuravano nulla per circoscrivere le ostilità in un territorio assai limitato, e ad ogni campagna seguivano lunghe tregue acciocchè il lavoro dei campi, fonte della prosperità delle famiglie, non fosse completamente abbandonato.

      Osman pascià aveva molte mogli e molti figli. Disgrazia volle che uno di questi figli, chiamato Mussa, fosse sedotto dall'esempio di uno dei suoi cugini, che aveva fama d'essere uno dei più turbolenti fra i Dere-beys. Mussa prese a percorrere il paese sottoposto a suo padre, s'impadronì dei tributi, adunò delle truppe, spiegò la bandiera dei Dere-beys e ne indossò l'abito. Il vecchio Osman, rimasto fedele suddito del sultano e desolato del colpo di testa di suo figlio, mandava un messaggio dopo l'altro a Costantinopoli per attestare la sua innocenza ed il suo rammarico. Commosso da queste proteste, Mahmud volle allontanare il padre dai luoghi ove il suo esercito poteva esser condotto ad incrudelire contro il figlio ribelle e affidò ad Osman pascià un comando nella Rumelia. Avviandosi alla sua nuova sede, Osman si scontrò col corpo d'esercito mandato a combattere contro suo figlio. Il padre rassegnato, rivolgendosi al capo delle truppe del sultano, esclamò: Dio ti doni


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