La vita intima e la vita nomade in Oriente. Belgioioso Cristina

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di ottenere da Osman qualche indicazione sullo stato del paese e dei popoli insorti, ma non riescì a strappargli che lagrime e singhiozzi. Qualche giorno più tardi Osman non avrebbe marciato a sua volta contro Mahmud? Il sultano l'aveva mandato a tempo in Rumelia.

      Ed ecco il giovane bey, liberato dal peso dell'autorità paterna, impegnarsi decisamente in una guerra lunga e terribile. Le sue reclute si battevano bene perchè combattevano sui loro campi, sulla soglia delle loro case, e quei montanari dell'Asia Minore avevano la sensazione di difendere la causa dell'indipendenza nazionale contro un esercito straniero. I Turchi di Costantinopoli con uniformi ed armi europee apparivano loro come degli stranieri. Mussa aveva una cavalleria leggera che si faceva ammontare a 20 o 30,000 uomini; con essa, sopratutto, il giovine bey faceva prodigi. Ogni anno, nuovi corpi d'esercito erano gettati da Costantinopoli sulle truppe del figlio di Osman; ogni anno, se ne ritornavano dopo aver lottato invano contro i rozzi soldati del capo insorto.

      Erede delle ricchezze e dell'influenza di suo padre, Mussa bey lo imitava nella sua predilezione per Veranceir. Vi si trovava meglio che nelle grandi città come Angora, ove una popolazione mista rende la difesa più difficile. Stabilito nella sua residenza favorita e circondato da' suoi valorosi e fedeli cavalieri, Mussa bey si credeva invincibile; e lo sarebbe forse stato se il sultano non avesse fatto intervenire nella contesa un elemento nuovo contro il quale nulla eravi di pronto. Alludo all'artiglieria che in Asia Minore non era nota che per fama; ma, sotto il comando di alcuni europei rinnegati, parecchi pezzi da campagna e d'assedio partirono da Costantinopoli e vennero ad assediare la città di Veranceir le cui fortificazioni non eran state costruite per resistere a tal sorta d'attacchi. L'ignoranza del bey in materia è provata dal suo errore di lasciarsi rinchiudere da un corpo d'artiglieria in una città inetta alla difesa; essa fu bombardata, le mura abbattute e la vittoria toccò al più abile, non al più intrepido. Forse il bey avrebbe avuto un'ultima via di scampo con una vigorosa sortita alla testa della sua cavalleria; ma la guerra durava da 10 anni, la stanchezza si era impadronita del cuore dei più valorosi ed i nuovi nemici, le cui armi insospettate compivano così orribili devastazioni, inspiravano una sorta di terror panico più fatale che i pericoli più reali. D'altronde i successori dei Solimani, dei Selim e dei Bajazet non avevano ancora abiurato le massime odiose della loro antica politica e a quei tempi i mussulmani non avevano rossore d'ingannare e di tradire. Il comandante dell'esercito imperiale fece sapere al bey ch'era munito d'ordini speciali a suo riguardo, che il sultano, ammiratore della sua valentia coraggiosa, voleva prenderlo al suo servizio, non avendo dimenticato i meriti del padre e volendo rimunerarne il figlio. Il generale ottomano aveva incarico di promettere a Mussa un completo perdono ed anche, per più tardi, i maggiori onori, purchè deponesse le armi e si recasse solo a Costantinopoli per farvi atto di sottomissione e vivervi poi tranquillamente, in attesa che piacesse al sultano di ricompensarne l'obbedienza. Mussa bey diede ascolto a queste proteste e forse non gli restava in realtà altra via da seguire. Pattuite non pertanto alcune condizioni per il suo paese, per i suoi fedeli e per la sua famiglia, il bey partì per Costantinopoli accompagnato da una scorta d'onore datagli dal pascià trionfante, e, tutto essendo stato sistemato con generale soddisfazione, lo stendardo del bey fu abbassato e sostituito dalla bandiera imperiale e le truppe del sultano presero possesso di ciò che restava della città.

      Non vi fu a Veranceir nè saccheggio, nè massacro, nè esecuzioni militari: fu il bey che pagò per tutti. Appena fu arrivato a Costantinopoli vide i soldati della scorta d'onore tramutarsi in guardie ed in carcerieri; Mussa fu chiuso in una prigione e vi fu decapitato dopo tre giorni di captività. Non basta: le sue mogli, i suoi giovani fratelli e i suoi figli furono arrestati nei dintorni di Veranceir, nella loro proprietà d'Eiaq-Maq-oglu, dove la sua famiglia si era ritirata alla partenza del bey. Furono inviati alla lor volta a Costantinopoli e venduti come schiavi. I loro beni furono confiscati e di tutta quella casa, testè così potente, non rimase che il vecchio Osman che non si permise il menomo mormorio e ricevette, in cambio delle sue perdute ricchezze, una pensione sufficiente a sostenere il rango che gli era lasciato. Il vecchio morì pochi mesi dopo suo figlio, triste ma silenzioso, senza lamentarsi e senza parlare delle sue sventure, attestando al suo sovrano quell'amore e quella gratitudine che riscaldano il cuore del pio e vero cristiano quando loda e glorifica il Signore d'aver gravato la mano su di lui e sui suoi. Ma cos'era dunque quest'Osman pascià? Un'anima stoica, un cuore devoto, un fanatico, un imbecille od un furbo compare? Non mi assumo di rispondere a queste domande.

      Il sultano Mahmud non sopravvisse lungamente al suo fedele servitore Osman e il suo giovane figlio Abdul-Megid[3] gli succedette. Che un tale figlio sia nato da un tal padre, che un principe di tal fatta abbia regnato su un popolo simile, che un mussulmano siasi rivelato così dissimile dai mussulmani di tutti i tempi sono ben strane anomalie. Tosto dopo la sua assunzione al trono, Abdul-Megid attese a scoprire quali fossero state le sorti delle famiglie di tutte quelle vittime illustri che avevano insanguinato il regno di suo padre. Sulla lista di quelle famiglie sventurate non mancava quella di Osman pascià. Si rintracciarono alcuni discendenti del padre di Mussa che dalla sua rivolta in poi eran tenuti schiavi. Restituita loro la libertà ed alcune delle loro antiche terre, tutti, uomini, donne e bimbi vi ritornarono abbandonando Costantinopoli. Il fratello maggiore di Mussa, uno degli amnistiati, sposò la più cospicua vedova del Dere-bey. I beni resi a questa famiglia non prosperarono nelle mani di questi beneficati dalla clemenza di Abdul-Megid. I degeneri figli di Osman, invece di sfruttare le loro terre, preferirono darsi all'usura, al commercio e vi furon anche quelli che vissero di rapine. Ben presto il territorio della valle d'Eiaq-Maq-Oglu fu trascurato, i mulini vi si fermarono, i canali d'irrigazione furono ostruiti, e il paese, un tempo abitato da Osman, si trovava in così triste stato allorchè io vi giunsi. Vedete con quali uomini io doveva aver a che fare. La fama pubblica mi annunciava ai proprietari fondiari dei paesi vicini a Costantinopoli come una dama «franca» che la guerra cacciava dalla propria patria e che veniva a trascorrere l'esilio in Turchia. I discendenti di Osman sopratutto si ripromisero di far buoni affari con una straniera sbarcata in Turchia in tali condizioni, e non avevano interamente torto. Venni da Costantinopoli per visitare la vallata così cara al vecchio pascià; la situazione, la bellezza del paese, la calma di quel ritiro incantato vinsero tosto le mie esitazioni. Comprai per cinque mila franchi la valle d'Eiaq-maq-Oglu, cioè una pianura di circa due leghe di lunghezza, per un terzo di lega di larghezza, traversata da un corso d'acqua e incorniciata da montagne boscose, con una casa, un mulino e una segheria. I fratelli del Dere-bey avevano fatto una magnifica retata e quando nel paese si seppe qual somma avevano riscossa si andò dicendo che la fortuna favorisce gli inetti. In ogni caso non ebbi troppo da lagnarmi degli antichi possessori della mia piccola tenuta, ed, allorchè disegnai di allontanarmene per qualche mese per recarmi a Gerusalemme, mi decisi a cominciare il viaggio in compagnia del più giovine dei fratelli di Mussa-bey. Ho fatto il racconto particolareggiato della storia di questa famiglia di cui avevo in parte riscattato l'eredità, perchè essa riassume assai bene le condizioni nelle quali languivano talune provincie della Turchia trent'anni or sono. I miei ricordi faranno forse apparire gli stessi paesi sotto un altro aspetto e si potrà così confrontare l'epoca di Abdul-Megid a quella di Mahmud.

      In una fredda giornata di gennaio io lasciai dunque il mio tranquillo rifugio, colla scorta di uomini a cavallo senza la quale è impossibile viaggiare in Oriente. Un fratello minore di Mussa, come ho detto, mi accompagnava. Dovevamo traversare, per raggiungere la piccola città di Bajandur[4], termine della nostra prima tappa, la contrada un tempo governata dal figlio di Osman. Il mio compagno mi mostrava i luoghi dove il derebey aveva battuto le truppe imperiali, il boschetto in cui una spia del nemico era stata impiccata sotto gli occhi e per ordine del capo dei ribelli, il posto già occupato dalle fortificazioni di Veranceir, il lato che aveva maggiormente sofferto dall'artiglieria del Sultano. La mia guida ravvisava spesso nei vecchi contadini che incontravamo lungo la strada dei compagni di Mussa bey; egli mi parlava della propria captività, delle sofferenze da lui sopportate, dello stato misero al quale era ridotto. Infine al nostro arrivo a Bajandur, ove presi alloggio in casa del Direttore delle poste, che era a sua volta un cognato di Mussa, il mio giovine compagno si accomiatò da me: ritornava al suo piccolo villaggio appollajato in cima ad un'alta montagna come il nido di un uccello di rapina. Seguii a lungo cogli occhi quel giovine, nato alla lotta e ristretto precocemente in una vita di ozio senza gloria. Triste spettacolo quello del fiero montanaro che su una cavalla curda, magra e gracile, seguiva faticosamente le svolte della strada. Gli abiti del


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