Alla finestra. Enrico Castelnuovo

Alla finestra - Enrico Castelnuovo


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e mi disse: — Girolamo, dovete farmi un piacere. — Mille, viscere mie, io gli risposi. — Figuriamoci, l'ho visto nascere, e suo padre ed io eravamo come due fratelli. — Ebbene — egli ripigliò dopo aver preso fiato — di facciata al portone dell'avvocato Galeni ci sta una povera tosa di nome Gegia, ch'io vedevo ogni giorno dalla finestra dello studio e che ha sempre mostrato molta premura per me. Quando sarò morto, e ormai sento che non passerò la giornata di domani, portatele quel vaso d'erbarosa ch'è lì sul balcone e che siete andato a riprendere poche settimane or sono... povero Girolamo, tant'era che non vi facessi fare che un viaggio solo... portateglielo per memoria mia, e salutatela tanto, e ditele ch'io pregherò il Signore e la Madonna perchè la facciano guarire delle sue infermità... e che si ricordi qualche volta di me...

      — Oh me ne ricorderò sempre, sempre — proruppe la Gegia in mezzo ai singhiozzi.

      L'altro intanto aveva deposto sopra una sedia la pianta d'erbarosa e si soffiava romorosamente il naso con un fazzoletto blù.

      — Si dia pace... non faccia disperazioni... Tanto ha finito di patire... Se avesse visto com'era ridotto...

      — Povero giovine! Povero giovine! Così buono!

      — Oh buono sì... E timorato di Dio, sa... Non come tanti... Egli veniva sempre alle funzioni... Don Agostino, quando lo ha lasciato iersera, disse a me: — Quello lì va in Paradiso dritto.

      — E la sua mamma?

      — Oh le mamme, si sa, stentano a rassegnarsi... Ma anch'ella stamattina mi disse asciugandosi gli occhi: — Vi raccomando di eseguir la commissione del mio Carletto... E la saluterete anche per me, quella tosa.

      — Grazie, grazie... oh come pagherei a potermi muovere e a venirla a trovare!... Ma è inutile!... E come vivrà adesso?

      — C'è una sua sorella maritata con un orefice, e quella si è obbligata a passarle un tanto... Poi ha ancora quei quattro stracci di suo marito.

      — O senta — replicò la Gegia — io sono una poveretta, ma se la mamma di Carletto dovesse trovarsi nella miseria, io darei tutto quello che ho per sollevarla... Glielo dica, sa, per l'amore che portava a quel giovine... glielo dica... E adesso, scusi, mi dia qui quel vaso.

      Ella prese e guardò quella pianta come si prende e guarda un bambino; poi la depose dolcemente ai suoi piedi, si frugò nelle tasche e trattone un biglietto da due lire, lo porse al sacrestano.

      — Giacchè è tanto buono; faccia dire una messa al nostro defunto anche per me... Lo hanno già portato in chiesa?

      — Oh no, lo porteremo domani... E sia tranquilla che si faranno le cose per bene... Le ripeto che tutti lo amavano... e ci sarà un funerale da povera gente... ma decoroso...

      Sono trascorsi alcuni anni, e la Gegia passa ancora le giornate al solito posto. Non sorride mai, non canta più, ha già qualche cappello bianco e qualche ruga sul fronte. Guarda spesso verso la finestra dirimpetto e i suoi occhi si bagnano di lagrime. Ella non sa persuadersi che un dì o l'altro non debba tornare Carletto a quella finestra e dirle:

      — Buon giorno, signora Gegia.

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