Una giovinezza del secolo XIX. Neera

Una giovinezza del secolo XIX - Neera


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piazzetta di S. Giuseppe c'è una casa, che ha la porta nell'angolo, che conta ora tre piani, ma che ne aveva allora solamente due; del soggiorno a quel secondo piano ho un vago barlume di ricordanza nel quale non si concreta nessun fatto.

      La mia vita, la mia infanzia, la mia giovinezza fino ai vent'anni, si svolse tutta in una casa del Corso Vittorio Emanuele, in un appartamento affondato oltre due cortili, lungi dai rumori del Corso, colle finestre principali aperte sopra una sfilata di giardini in fondo ai quali si disegnava aerea sull'orizzonte la guglia maggiore del Duomo. Nei vent'anni colà trascorsi si decise tutto quanto il mio destino. Dall'andito di quella porta, che ora si vede tagliato a mezzo da una vetrata, ma che in quel tempo si prolungava come un canocchiale sullo sfondo verde degli alberi, entrarono i sogni, le illusioni, gli inganni dell'età prima e da quella porta uscirono le bare dei miei genitori.

      Esiste ancora un dagherotipo dove sono ritratte tre giovani donne, mia madre e le sue sorelle, sedute in fila una accanto all'altra; sopra uno sgabello ai loro piedi si vede e non si vede una piccola forma, che potrebbe essere tanto un bambino quanto una bambina, insaccata in una lunga e larga pellegrina dalla quale esce in alto una testa rasata (era allora un'opinione per far crescere i capelli) e in basso due scarpette ineleganti colle calze a borzacchino. Mi hanno detto che sono io.

      Infatti, ripensandomi a quegli anni, devo convenire che il dagherotipo non può avermi soverchiamente calunniata. A traverso le imperfezioni di quest'arte, che precedette di poco la fotografia, quel piccolo volto triste e pensieroso dovette proprio essere il mio; persino la positura, che mi ingobbisce contro i ginocchi delle persone che mi stanno a tergo, dà l'immagine perfetta della mia infanzia curva e depressa. Non ho che a guardare le bambine del giorno d'oggi accarezzate, vezzeggiate, infronzolite di trine e di nastri, ridenti e spensierate colle loro chiome date agli omeri sotto il breve ritegno di un nastro roseo o celeste, petulanti e felici, capricciose e felici udendo ripetere dai genitori anzitutto, e poi dagli altri, che sono belle, carine, intelligenti, per sentirmi ancora nelle ossa il freddo della mia infanzia e, riportando gli sguardi sul vecchio dagherotipo, provare l'impressione di affondarli in una gora morta piena di ombre.

      Chiesi un giorno (non sono moltissimi anni) alla più giovane delle sorelle di mia madre, la dolce e sorridente zia Carolina: — Dimmi la verità, da piccola ero molto cattiva? — Oh! — rispose con un gran gesto d'affetto — eri tanto buona, tanto ubbidiente! — E allora perchè la mamma mi sgridava sempre? — Chinò la testa la mia dolce zia sospirando: — Poveretta, devi compatirla, si sentiva sempre così male! — È con un profondo senso di sollievo che posso scrivere oggi queste parole a spiegazione di un ingenuo sfogo infantile da me riprodotto in un tentativo, assai male riuscito, di autobiografia, e che alcuni critici presero alla lettera senza darsi la pena di interpretarne la psicologia. Fu certamente quell'ingenuo sfogo di un cuore, che si sente solo, il mio primo passo verso la consolazione. Ne ho perfetto ricordo; sento ancora l'impulso irresistibile, mi vedo in punta di piedi, colla matita alzata a scrivere sul legno di una gelosia «Ho nove anni, sono brutta, la mamma mi sgrida sempre». Era questo il grido spontaneo della mia infanzia senza baci, senza giuochi, priva di quelle blandizie che nei primi albori colorano di rosa ogni oggetto intorno. Probabilmente sarò stata povera di spirito e di intelligenza; è certo che non sentii mai vantare da nessuno la mia intelligenza e nessuno citò mai le mie arguzie. All'età in cui le altre bambine sono già conscie dei propri meriti ed hanno già maliziette o grazie di donna, io non ero che un povero bacherozzolo rinchiuso nel proprio guscio. Timida, seria, incapace, nè di fare, nè di comprendere uno scherzo, il giorno stesso, che affidai ad una gelosia quel famoso documento del mio essere, ero rimasta mortificata e inquieta perchè lo zio Cecco, altro fratello di mia madre, prendendomi il ganascino aveva detto: «Ah! biricchina, hai gli occhi tinti di carbone!» e, mentre protestavo la mia innocenza, egli rideva, rideva.

      Erano dunque cause interne ed esterne che contribuivano a rendere poco lieta la mia infanzia; io scontrosa, acerba, non avendo vicina neppure una bimba della mia età, portata dal temperamento e dalle circostanze a ripiegarmi su me stessa; la mamma già delicata, resa sempre più debole dalle frequenti gravidanze, ridotta a quello stato di nervosismo e di irascibilità, a cui accennava la mia buona zia Carolina, e che ben conoscono le donne gracili quando hanno assolto il compito di conservatrici della specie in misura superiore alle loro forze. Ebbi la fortuna in questi ultimi giorni della mia vita di venire in possesso di una voluminosa corrispondenza famigliare, che ha rischiarato molti punti oscuri dei miei ricordi mettendomi in presenza di persone morte prima che io nascessi, di altre intese appena a nominare, di altre amatissime e perdute. Attingendo a questa fonte genuina conobbi mia madre meglio che nei pochi anni vissuti insieme.

      Ecco, dapprima, le letterine eleganti su foglietti arabescati che dal collegio scriveva alla madre in occasione del di lei onomastico; lettere tenere e rispettose, dove il pronome in terza persona è rigorosamente conservato; poi quelle alle sorelline, riboccanti d'affetto; infine la corrispondenza con mio padre durante il lungo periodo del fidanzamento, inutilmente contrastato da invidiosi e da maligni (queste lettere sono tra le più pure che mai amanti si sieno ricambiate); finchè dalla ritenutezza della fanciulla si giunge alla frase appassionata della sposa felice, che nelle brevi assenze di lui trova vuoto il mondo. È durante una di queste assenze, che mi vedo ricordata per la prima volta con queste parole che non dovevo mai udire dalle sue labbra «l'angioletto nostro, la nostra adorata bambina». Ma allora io ero ancora presso la nutrice e lei nella pienezza della gioventù.

      Sul cielo grigio e nuvoloso delle mie più antiche memorie si apre uno sprazzo di luce che compendia tutta la felicità della mia infanzia; è duopo però che io menzioni prima un'altra delle mie grandi infelicità: la scuola. Credo che pochi sieno andati a scuola così mal volontieri come andavo io. Ne conobbi due di scuole: in entrambe la mia esperienza fu eguale. Regolarmente riuscivo antipatica a tutte le maestre; ai professori no, nemmeno a quello d'aritmetica, che si accontentava di guardarmi con benevola compassione quantunque io terminassi i corsi senza sapere la somma, (come non la so al presente). Fra le compagne cercavo affetto, ma difficile riusciva l'accordo assoluto, perchè fin da allora avvertii quell'ostacolo, quella specie di malinteso fra me e i miei simili che doveva fare di me una solitaria; che se talvolta l'acceso desiderio potè indurmi a credere realizzato il sogno, troppo sovente seguì il disinganno, a scuola e poi.

      L'insegnamento ai miei tempi era una miseria. Per le famiglie della borghesia la scuola privata non lasciava altro scampo. Vi si accumulavano prima inferiore e prima superiore, seconda inferiore e seconda superiore così fino alla quarta superiore, dalla quale si usciva a educazione finita senza conoscere un solo verso di Dante. In compenso, quando il professore si trovava a corto di argomenti per la sua lezione, ci leggeva una poesia di Arnaldo Fusinato. Il difetto principale di quelle lezioni era la mancanza assoluta di un concetto regolatore. Invece di incominciare dal principio e procedere gradualmente con nozioni chiare, legate da un nesso logico di continuità, a fanciulle ignoranti, quali noi eravamo, ci scaraventavano addosso una specie di estratto Liebig indigesto e confuso sull'origine delle lingue romanze. Un altro giorno erano idee generali sul secolo XV. Oh, perchè proprio il secolo XV diviso dagli altri secoli e campato in aria come un cervo volante attaccato ad un filo? Forse per farci sapere queste notizie da dizionario? «Cristoforo Colombo, nato a Cogoleto sulla riviera di Genova verso la metà del secolo XV, morto a Valladolid nel 1506. Il solo nome basta alla gloria di un uomo tanto grande, quanto infelice».

      «Ambrogio Calepino da Bergamo moriva nei primi anni del secolo XVI. A questo dottissimo filologo siamo debitori di un vocabolario tanto celebrato, onde venne ai dizionari latini il nome di Calepino».

      Se un ammasso di nomi e di date così arido era il meno atto a fissare l'attenzione nostra e ad interessarla, non vi riusciva nemmeno il seguente fioretto di letteratura accademica che ci dettarono:

      «Il Poliziano nasceva nell'anno 1452 a Montepulciano. D'ingegno profondo, versatile, prontissimo, cattivossi giovinetto con alquanti facili versi la stima e l'affetto di Lorenzo il Magnifico e visse lautamente la breve sua vita nei ceppi dorati della corte Medicea. Fu ad una filosofo e filologo, poeta e prosatore di chiarissimo nome, ed ebbe così facili le lingue del Lazio e della Grecia, che in esse scriveva colle grazie e le elette forme di Tibullo e di Anacreonte.

      «Colla tragedia lirica dell'Orfeo da lui come fama improvvisata in due giorni


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