Una giovinezza del secolo XIX. Neera

Una giovinezza del secolo XIX - Neera


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una sala d'onore e bella. Solo che per accedervi bisognava o attraversare il famoso acciottolato del portico, una loggetta, il cortile, (bagnandosi se pioveva); oppure la cucina, il salottino buio, una ripida scaletta di mattoni, un solaio, lo scalone di pietra e la loggetta come sopra. Comodo nevvero? Naturalmente era sempre chiusa e invece delle visite ospitava accanto ai mobili deserti, qualche sacco vuoto, qualche paniere fuori d'uso, qualche dozzina di pere distese a maturare per l'inverno. Un particolare curiosissimo di quella sala era la tapezzeria, rappresentante a larghe linee un paesaggio inverosimile dove un cacciatore puntava il fucile contro un uccellacelo sospeso a pochi palmi sopra il suo naso; ma il bello veniva dopo, quando allo svoltare della tappezzeria nell'angolo l'uccello veniva a trovarsi dall'altra parte del cacciatore.

      Qui dovrei forse fare punto fermo, cestinando un altro particolare che ai miei giovani anni mi scandalizzava assai. Ma penso che quei giovani anni, tanto io quanto i miei lettori, li abbiamo sorpassati e siamo ora d'opinione che qualsiasi documento, anche il più puerile e apparentemente insignificante, trova il suo posto negli usi e costumi di un secolo e in questa nostra vita dove tutto si concatena. Dirò dunque che, mentre il cacciatore se ne stava fisso al suo punto di mira, anche se il punto sfuggiva al tiro, un altro misterioso individuo soddisfaceva indisturbato sotto un albero i suoi più intimi bisogni. Sono scherzi che ai nostri giorni, col nostro gusto raffinato, non si potrebbero tollerare. Gli avi e bisavi invece ne ridevano, con quello spirito semplice e primitivo che i nati dopo la rivoluzione francese relegarono in fondo alla provincia. La burla che tenne tanto posto nelle cronache dei Comuni e delle piccole Corti italiane, la burla boccaccesca e rabelasiana, cadde a poco a poco dinanzi a una coltura più diffusa e ad una maggiore sensibilità di nervi ma un lungo strascico, spoglio della crudezza di quei tempi, rimase negli usi del Settecento fino agli albori del secolo decimonono accontentandosi del sottinteso scurrile.

      Ho visto io sotto il Coperto dei Figini esposto in una di quelle botteguccie, che i vecchi come me ricorderanno, un fermacarte rappresentante col più crudo verismo una porcheria, che a trovarla per la strada ci fa scansare rapidamente, e qualche anno dopo mi rallegravo del progresso civile che aveva fatto scomparire simili pervertimenti del gusto. Andai poi a Parigi e là, in pieno centro elegante, sull'angolo della via Coumartin, in un negozio all'insegna — Au bon rire gaulois — vidi ancora il medesimo scherzo (chiamiamolo così) che a Milano era scomparso da mezzo secolo.

      Per chi ama riflettere sugli atteggiamenti spontanei del popolo è interessante questo sopravvivere di una tendenza, che sembrava sorpassata per sempre e sopravvivere nella città che fu detta il cervello del mondo. Il bon rire gaulois si vede che è rimasto vitalità tenace della razza, proprio a Parigi dove si trovano ancora la bettole Aux armes de Chartre come ai tempi del Re Sole. Di un altro re più moderno, un re di quel secolo decimottavo durante il quale la burla poco pulita dilagò dovunque, si ha questo aneddotto che prova la diffusione di un uso al quale non sfuggirono fino all'ultimo le più alte classi sociali. Beniamino Franklin trionfava nella capitale della Francia e le sue idee utilitarie formavano il soggetto di tutte le conversazioni; la contessa di Polignac, grande amica della disgraziata Maria Antonietta, se ne mostrava entusiasta al punto che Luigi XVIº, le roi débonaire, per prenderla in giro le mandò un magnifico vaso da notte, espressamente ordinato alle officine di Sèvres, con suvvi impresso il ritratto dell'uomo alla moda e il motto: art e utilité.

      In quella casa bizzarra, tra la zia Claudia sempre in moto e lo zio Germanico taciturno, io m'aggiravo in piena libertà. Trascorsi i primi anni dell'infanzia mi disinteressai dei giuochi rumorosi dei miei compagni. Preferivo sedermi sopra un rialzo della loggetta, che fiancheggiava il giardino e, pur non sdegnando i bei grappoli d'uva pendenti sul mio capo con certi chicchi lunghi come bozzoli, mi sorprendevo ad errare collo sguardo sulle aiuole scompigliate dal gatto, così senza un pensiero fisso, ma col germogliare di tante sensazioni sposate alla bellezza dei fiori che incominciavo a conoscere per nome; la diversa colorazione dei gerani, il profumo della vaniglia, lo strano volto delle viole del pensiero e una pianticella di fiori chiamati le meraviglie che odoravano solamente al tramontare del sole, e un'altra che si ingemmava di piccole bacche bianche lucenti rotonde come perle; e le erbe, le care erbe dai molteplici odori che coglievo per mettere nel mio fazzoletto. Non conoscevo ancora il delizioso verso della Cantica «Sia il tuo amore simile a un mazzetto d'erbe odorose appeso alla tua cintura» e non conoscevo l'amore. In nulla fui precoce, nemmeno in questo. Ebbi però prestissimo sviluppata l'attitudine all'osservazione e una intuizione, che contrastava singolarmente con una ingenuità assoluta, da sembrare qualche volta deficienza. Ero anche seria più che non comportasse l'età, con una inclinazione a problemi che raramente interessano le bimbe di nove o dieci anni. Mentre i nipoti dello zio si erano divertiti a disegnare omini e cavallucci sulla parete dello scalone, io vi scrissi questa quartina letta chi sa dove:

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