Una giovinezza del secolo XIX. Neera

Una giovinezza del secolo XIX - Neera


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fiori, spiccavo un salto per la gran gioia. Era il cabas della zia Carolina!

      La liberté, ce seul besoin du sage! Non mi era noto allora questo verso, ma la verità che esso contiene fluttuava inconsciamente nel mio istinto di bimba solitaria e nel desiderio occulto di uscire di casa sola. Il mio soggiorno a Caravaggio soddisfaceva anche questo desiderio; lo consentiva l'uso del paese e la vicinanza delle mete che mi era permesso di raggiungere. Una fra queste era la mia nutrice alla quale volevo molto bene. Venivo accolta come una regina; si alzava subito, deponendo fuso e rocca, se stava filando; mi sorrideva, chiamava le sue cognate perchè mi venissero a vedermi, per tal modo erano in tre a farmi festa, tre paia d'occhi benevoli che mi scrutavano da cima a fondo, approvando con un luccicore umido nelle pupille che era tutto una tenerezza. Poi la mia balia apriva la sua rozza credenza, mostrandomi in fondo a una scodella alcuni gamberi in salamoia, che aveva serbato a bella posta per me; da parte mia, quando l'avevo, le davo una mezza muta d'argento, che la faceva contenta ed io più di lei.

      Qualche volta, di rado, la nonna mi incaricava di portare un cestello di frutta alle sorelle del nonno, due vecchie zitelle che vivevano sole; una minutina, magra, svelta, la zia Caterina, si incaricava di tutte le loro faccenduole in casa e fuori; l'altra, la zia Lucia, un donnone, corpulenta e grassa, passava le giornate in un salottino semibuio, sdraiata sopra un piccolo divano giallo, che scompariva sotto la grossa persona. Si diceva che da giovane fosse stata molto bella e consapevole di questo suo pregio rifiutasse tutti i pretendenti, commentando che non si sarebbe mai sposata se lo sposo non veniva a prenderla con un tiro a quattro. Forse questa frase era una malignità dei respinti; comunque il tiro a quattro non giunse mai alla sua porta ed ella certo non lo aspettava più. La cuccuma del caffè, l'antica cuccuma di rame, stava tutto il giorno sul focolare delle due vecchie. La zia Caterina magra e svelta la portava a tutte l'ore alla zia Lucia immobile sul sofà e tutte e due sorbendolo pensavano forse che vi è ancora qualche dolcezza nel mondo.

      Nel breve tratto di strada, che percorrevo per fare le mie visite, c'era una botteguccia dove una donna vendeva filo, aghi, bottoni d'osso esposti confusamente in una vetrina polverosa ed appannata, con mezza dozzina di fazzoletti intorno sempre gli stessi, e due o tre foglietti di carta da lettera picchiettati dalle mosche. Fra queste povere cose c'era tuttavia un cartoncino che attirava la mia attenzione per tutti gli spilli che vi erano infilati dentro l'uno dietro l'altro come soldatini in parata, colle loro capocchie di vetro assortite nei più bei colori, verde, rosso, aranciato, viola; nè io badavo che fossero di vetro, perchè la mia immaginazione le aveva già poste nella gerarchia delle pietre preziose distinguendole in smeraldi, in rubini, in topazi, in ametiste: elenco di tesori che la lettura delle Mille ed una notte mi aveva reso famigliari.

      Questa agilità della fantasia a muoversi nei campi dell'irreale doveva procurarmi i momenti forse più belli della mia vita. L'uomo che nel Morgante maggiore del Pulci, si burla del vicino, che, avendo sognato i suoi buoi ne pretendeva il possesso e mostrandoglieli riflessi nel fiume gli dice ironicamente: «Or va laggiù a pigliarli, son tuoi» afferrando la verità immediata del possesso, trascura il valore della conquista spirituale. Bisogna lasciare al sogno il largo posto che esso occupa nella nostra esistenza. Togliendolo all'uomo lo si priva di uno degli attributi che lo distingue dalla bestia. Coltiviamo il sogno: esso è l'isola incantata dove il navigante tra l'una e l'altra tempesta riposa. Il solo ammonimento che ci dà la ragione è quello di contenerlo entro i limiti di piacere superiore. Dagli spilli che io ammiravo non potevo ritrarre nessun utile personale, ma il diletto, che provava la pupilla posandosi sui variopinti colori, metteva in moto le cellule del mio pensiero e tanto me ne compiacevo da reputarmi ricca quando riuscivo a comperarne una cartina. Mi divertivo allora a contarli, a suddividerli col mio criterio fanciullesco secondo l'età e la condizione del destinatario, come faceva la nonna coi piatti del desinare, e poi correvo a portarli alla mia balia, alle sue cognate, alla vecchia Teresa, alla lunga Francesca. Se fossero stati veramente smeraldi e rubini non avrei potuto sentirmi più fiera del mio dono. E quanto felice!

      Un'altra casa sulla quale si raccolgono i buoni ricordi delle mie vacanze a Caravaggio, un po' succursale di quella dei nonni, era la casa della zia Claudia, moglie al dottore. Meno comoda meno ordinata, meno signorile, questa seconda dimora non mi era perciò meno gradita. Alla mia fantasia vagabonda una porta un po' sgangherata, un sottoportico irto di ciottoli come un sentiero di montagna, una catasta di legna in un canto, non presentavano nulla di sgradevole; nemmeno la fossa delle immondizie aperta a ciel sereno stonava troppo, poichè un albero di alloro vi sorgeva dapresso ombreggiandola colle sue lucide foglie e un bel giorno mi sorpresi a comporre questa osservazione «Anche nella vita troppe volte l'alloro cresce sulle immondizie».

      Il cortile della zia Claudia non presentava esso pure la costruzione lineare del cortile del nonno, ma aveva, impareggiabile vantaggio, una spalliera di albicocche dorate, così luminose nel sole che tutta la casa ne riceveva una specie di sorriso e un tralcio di vite, che saliva ad abbracciare i pilastri di un loggiato superiore, al quale dava libero accesso uno scalone di pietra, ben noto ai miei piccoli passi leggeri. Nel mezzo del cortile poi molte pianticelle di fiori, senza esclusione del domestico prezzemolo e della salvia aromatica costituivano uno di quei giardinetti provinciali che, forse in memoria dei beati tempi, ho sempre preferito alle aiuole lisciate e pettinate dei giardinieri di professione. C'erano anche intorno al cortile ripostigli e stambugi adattatissimi per il giuoco di nascondersi che si faceva insieme ai nipoti dello zio Germanico, ospiti quotidiani al pari di me.

      Lo zio Germanico era l'uomo di compagine più semplice che io abbia mai conosciuto. Flemmatico oltre ogni dire, quando aveva compiuto il giro de' suoi ammalati, ospedale e comune, e fatto il debito sonno del pomeriggio, si metteva a cavalcioni di una delle molte sedie che popolavano il sottoportico a fumare la sua pipa. Se capitava allora un cliente, generalmente un contadino o una povera donna, egli nè mutava posizione, nè si toglieva la pipa di bocca; nemmeno voltava la testa. «Cosa avete? — Signor dottore mi duole lo stomaco — Che stomaco? dove? — Signor dottore....». Balzava fuori allora come un diavolino da una scatola, la zia Claudia e si poneva fra i due «Guardalo dunque, se non lo guardi come puoi capire? E voi, dite su, dove vi duole? Qui? qui?...» Usciva un brontolio dalla bocca chiusa del dottore e la zia Claudia incalzava «Levati la pipa di bocca, come vuoi che capisca?» «Gru, gru» e la zia a spiegare «Ha detto di mostrare la lingua» Così fino alla fine della visita. Era la cosa più buffa che si potesse immaginare: la flemma del marito, il fuoco della moglie.

      La zia Claudia aveva veramente l'argento vivo addosso. Seconda delle tre sorelle, non assomigliava nè a mia madre nè alla zia Carolina. Faccendiera per temperamento era in piedi tutto il giorno; una sua particolare fobia di pulitezza gliene dava buon giuoco trovando necessario di sorvegliare la domestica ad ogni passo, sostituendosele anche in certe delicate preparazioni del cibo. Era così schifa su questo capitolo del mangiare che, invitata a pranzo da un'amica, portò con sè il proprio pane non stimando il fornaio dell'amica sufficentemente pulito. Di ciò se ne rideva insieme; ma a me faceva pena quando, non so per quale pio voto, essendosi imposta la mortificazione di baciare la terra, dopo aver recitate le sue preghiere, cercava affannosamente presso ai mobili l'angolo che presumeva più al sicuro delle eventuali sporcizie.

      E anche la zia Claudia, quando non fosse occupata a rincorrere la servetta, (occorrevano sempre a lei serve giovani da poter far piroettare) eleggeva a suo domicilio il sottoportico, vi riceveva, vi lavorava, ammesso che lavorasse, perchè io in verità non l'ho mai vista seduta tranne che nel caso di dover discorrere con qualcuno; esso era il centro di riunione come l'hall per le case inglesi; è per questo che tutte le sedie disponibili vi erano raccolte in democratica fratellanza colla catasta di legna e nessuno vi faceva caso. La vecchia dimora, dimora avita dello zio, era sempre stata così. Dovevano, però, i visitatori premunirsi contro le correnti d'aria, perchè l'hall della zia Claudia, posto tra il cortile e la strada colla porta sempre aperta, faceva una terribile concorrenza alla rosa dei venti. Non che mancassero i locali; la casa era ampia, ampia ma scomoda: tutti quegli stambugi, solai, scale e scalette, che formavano la delizia di noi ragazzi, erano un inutile ingombro al disimpegno delle domestiche faccende; moltiplicavano le lontananze, interrompevano le unità, obbligando venti, trenta volte al giorno, ad affrontare l'alpinìsmo dei sassi sotto il portico per recarsi da una camera all'altra che guai ad avere calli (ma noi ragazzi non ne avevamo). Si spiega come, muovendosi sopra


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