Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins

Saving Grace - Pamela Fagan Hutchins


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mi avrebbe fatto sentire meno in colpa? Avrei voluto chiamare Nick e sapere cosa ne pensasse. Avrei voluto correre fuori dalla porta. Volevo un punch al rum. Volevo indietro mamma e papà. Deglutii e tirai fuori il libretto degli assegni.

      Mentre gli firmavo l’assegno, continuò a parlare. “Ho molti casi da seguire al momento. So già che non potrò dedicarmici per alcune settimane. Non è un’emergenza, dopotutto, i suoi genitori sono già morti.”

      Rabbrividii di nuovo. Però, aveva ragione. Era un cafone, ma aveva ragione. Misi l’assegno sulla scrivania insieme al mio biglietto da visita e, con le dita, li allungai verso di lui. Scavarono una striscia di pulito fra la polvere.

      “Beh, grazie, signora Connell. Mi farò vivo,” disse, afferrando l’assegno prima che potessi togliere le dita.

      Mentre Ava ed io ci alzavamo per andare, disse, “Oh, un’ultima cosa. È meglio se parlo prima io con i potenziali testimoni. Interferisce con la mia investigazione quando i clienti cercano di farlo prima da soli. Quindi, per favore, mi lasci fare ciò che mi ha ingaggiato per fare e si goda la sua vacanza sulla nostra isola paradisiaca.”

      “Va bene,” dissi.

      E ce ne andammo, più in fretta che potei.

      Dieci

      Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane

      18 agosto 2012

      Ava ed io camminavamo lungo il marciapiede, in silenzio come una coppia sposata, invece che due donne che si erano conosciute quindici ore prima. Camminavo davanti a lei, ma cercavo di rallentare. Dalla vita, però, non tanto per prendermela comoda.

      Quando raggiungemmo la macchina, Ava mise entrambe le mani sul tettuccio. “Dimmi che hai fame e che sei pronta per un drink.” Portò l’avanbraccio davanti alla faccia, come per controllare l’ora su un orologio immaginario. “Sì, decisamente ora di pranzo.”

      “Devo vedere il Promontorio di Baptiste” dissi. “Devo solo vederlo. Non penso di poter lasciare tutto nelle mani di Walker senza vederlo coi miei occhi.”

      Ava si mise come in posa, con le braccia piegate in aria, tutte e dieci le dita puntate verso il cielo, muovendo la spalla a ritmo. “Beh, ovviamente devi vederlo.” Lasciò perdere la posa drammatica e si chinò verso di me. “E ti ci porterò, ma avrai un panino di pesce volante in una mano e una Red Stripe nell’altra quando arriveremo là.” Indicò una strada davanti a noi e poi la sinistra. “Guida, segui questa direzione.”

      Dopo essere rientrate nella caldissima Chevrolet Malibu, guidammo fuori città lungo la ventosa costa nord, l’azzurro alla nostra destra, il verde alla nostra sinistra. Abbassammo i finestrini e lasciammo volare i capelli. Avrei avuto bisogno di un uragano per far volare via la tempesta dentro di me nell’aria di mare, ma una forte brezza marittima andava bene per ora. Passammo un porto. Il tanfo di benzina e pesci morti si fece intenso per un momento e iniziai a buttare fuori aria dal naso. Tolsi dalla bocca alcuni dei capelli che il vento aveva spostato e presi un sorso dalla bottiglia d’acqua che avevo preso dall’ufficio di Walker. La stessa bottiglia a cui avevo dato una strofinata punitiva con le salviette disinfettanti che avevo in borsa, una volta arrivata in macchina.

      Dopo dieci minuti al volante, Ava indicò una capanna sulla spiaggia.

      “Fermati qui,” disse.

      La capanna si rivelò essere un piccolo ristorante d’asporto, con un bar e qualche sgabello da spiaggia. Non c’era nessuna insegna che potessi leggere. Ava si tolse le (mie) scarpe e scese dalla macchina, ed io la seguii. Attraversammo la spiaggia per arrivare al ristorante senza nome e fummo accolte da un paio di cani.

      “Cani della spiaggia,” disse Ava. Ordinò loro di stare indietro con una voce profonda che non l’avevo mai sentita usare, e i cani obbedirono, scodinzolando.

      Ava salutò il proprietario come fosse un suo vecchio amico e gli diede il nostro ordine. Lasciò il palmo della mano aperto, così tirai fuori venti dollari. Gli brillavano gli occhi, e mostrò anche l’altro palmo. Tirai fuori altri venti dollari. Annuì, così misi una banconota in ciascuna mano. Mise il denaro in un cestino sotto al bancone e tornò alla friggitrice, risucchiando le gote nello spazio una volta occupato dai denti. Niente resto. Il paradiso non è economico.

      Ava saltò sopra uno degli sgabelli, affacciati sul mare. Mi unii a lei. Che bel modo di pranzare. Mi sarei potuta abituare. Appoggiai i piedi sul supporto tra le gambe dello sgabello, con i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani.

      “Il pranzo è sempre così caro su quest’isola?” chiesi.

      “Yah mon. Se non sei baan ya.”

      Ero indignata. “Quindi ti avrebbe fatto spendere meno di quanto ha chiesto a me?”

      Tirò su col naso. “Lui? No, è un ladro. Ma normalmente c’è uno sconto per i locali.”

      Ah beh. Non era sorprendente. Girai la testa, godendomi gli scricchiolii del collo. L’acqua mi stava chiamando a sé. “Ti dispiace se metto i piedi in acqua mentre aspettiamo?” chiesi ad Ava.

      “Vai pure. Rimango qui e ti chiamo quando è pronto.”

      La sabbia era tiepida, quasi calda. Appoggiavo prima i talloni, prendendomela comoda. Come mi avvicinavo al bagnasciuga, la sabbia si faceva più dura e fresca. Non esitai. Mi immersi nell’acqua, fino alle caviglie, fino alle ginocchia. Alzai di diversi centimetri il prendisole. Le onde si scontravano con le mie ginocchia, schizzandomi le cosce. Dopo che l’acqua si era infranta su di me, sentii la brezza marina che arrivò a seccarmi. Potevo vedermi i piedi, sul fondale dell’oceano. Lasciai entrare la sabbia fra le dita. Un’altra onda arrivò e mi sollevò con sé. Un banco di pesciolini argentati guizzava attorno a me, da un lato e dall’altro, a pochi centimetri dalla superficie.

      “Katie,” mi chiamò Ava. “È pronto.”

      Sarei potuta rimanere lì per ore. Ma uscii dall’acqua, schizzandola coi piedi negli ultimi passi prima del bagnasciuga. Immaginando mia madre, chiedendomi se avesse fatto lo stesso, se lo avesse fatto proprio qui, in questa spiaggia. Se l’uomo della capanna che mi guardava adesso da lontano l’avesse vista, e se avesse pensato che avessi un volto familiare. Sin dall’adolescenza, ci dicevano che sembravamo gemelle. Mamma alzava gli occhi al cielo e diceva: “Forse per un settantenne, da un centinaio di metri.” Si sbagliava. Era troppo giovane per morire.

      Raggiunsi Ava e portammo i panini, arrotolati in un’unta carta cerata, in macchina. La Johnnycake è un pane fritto, l’equivalente caraibico dello Youtiao cinese o della Sopaipilla messicana. Tutto ciò di cui la mia cellulite aveva bisogno. Anche se in realtà la mancanza di esercizio fisico negli ultimi cinque anni, da quando avevo mollato karate, non le troppe calorie, era il mio problema. Ava reggeva anche due Red Stripes gelate fra le dita.

      “Quanto manca?” chiesi.

      “Dieci minuti,” disse.

      Guidammo lungo la costa per un altro chilometro, poi ci addentrammo nell’entroterra, in salita. Non mi piaceva abbandonare la calma del litorale. Gli ultimi otto minuti di tragitto erano stati su strade sporche e dissestate che a cadenza regolare si trasformavano in foreste di cespugli.

      “Non è un posto da esplorare da soli,” disse Ava, indicando una delle traverse. “Troppo isolato.”

      “Però è bellissimo quassù,” dissi. Di fatto, ero scioccata da quanto fosse bello. Diverso dalla costa, ovviamente, ma diverso in senso buono, in modo perfetto. Gli alberi erano più alti e si intrecciavano sopra la strada, creando un tetto sopra di noi e smorzando il rumore dell’infrangersi delle onde sulla sabbia e sugli scogli, a un solo chilometro di distanza. Intravidi delle piume colorate fra gli alberi.

      “È un pappagallo?”

      “Yah mon. Vivono quassù.”

      Al contrario di Ava, non credevo mi sarei mai abituata a questo tipo di flora


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