Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins

Saving Grace - Pamela Fagan Hutchins


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no,” dissi, ridendo. “È passata una vita.”

      “Non vuol dire nulla. Beh, comunque, sono contenta che tu sia qui. Questo è molto meglio che guardare Oprah con mia mamma.” Ava tornò in camera da letto e si mise a studiarmi, con un dito sulle labbra. “Il fatto è, penso tu sia una tipa a posto.”

      Mi piaceva, anche se eravamo agli antipodi. E adoravo ascoltarla parlare, e stavo anche iniziando a capire meglio il suo dialetto. Yah era “sì” e Yah mon poteva essere “sì” o “nessun problema”, ad esempio. Non era poi così difficile.

      Le dissi, “Beh, di nuovo, grazie dell’aiuto.”

      Ava mise il piede vicino al mio e alzò la testa. “Mi serve un paio di scarpe. Le uniche che ho sono quei tacchi da rimorchio che avevo messo ieri sera. Ho i piedi abbastanza grandi, che ne pensi se proviamo il paio più piccolo che hai?”

      Fui un attimo turbata da questa dichiarazione, data l’educazione impartitami dalla mia maestra d’asilo/madre, ma il commento sui miei piedi non mi offese. Ero dieci centimetri più alta di lei. “Cosa ne dici di queste?” chiesi, lanciandole dei sandali infradito della Reef che erano mezza taglia più piccoli di quanto avrei dovuto comprarli.

      Vi infilò il piede dentro e si mise in posa come in un negozio di scarpe. “Cosa ne pensi?”

      “Penso che la tua roba stia meglio a te che a me, e che dobbiamo sbrigarci, altrimenti inizierò a odiarti per questo.”

      Rise e mi posò un braccio sulle spalle. “Yah, o io ti odierò per fare sembrare il mio bana ancor più grande di quanto già non sia,” disse, sculacciandosi il sedere con l’altra mano. “Dai, andiamo.”

      Ava tolse il braccio dalla mia spalla. Si mise i miei occhiali da sole, prese la mia borsa dalla scrivania e mi infilò i piedi dentro ai sandali di Betsey Johnson che per fortuna erano troppo grandi per la mia nuova amica. Ava uscì dopo di me. Camminavo a passo sostenuto per i marciapiedi, alimentata dalla splendida mattina, per raggiungere l’auto a noleggio che il portiere aveva fatto recapitare qui per me.

      “Rallenta e rilassati un po’, Katie. Stai andando troppo veloce per i ritmi dell’isola,” disse Ava dietro di me.

      Aprii la portiera dell’adorabile Chevrolet Malibu verde. “Rilassarmi, ci posso riuscire. Fatto.”

      Lungo il tragitto, Ava mi istruì sui convenevoli dell’isola, sottolineando quanto fosse importante integrarmi per la riuscita della mia missione.

      “Non dire ciao. Dì buongiorno, buon pomeriggio, e buona sera. Lo dici quando entri in una stanza piena di gente, non alle singole persone. Non c’è bisogno di stabilire un contatto visivo. Dopo averlo detto, fai una lunga pausa, per dare la possibilità all’altra persona di rispondere e chiederti come state tu e la tua famiglia. Dopo, e solo dopo, puoi parlare di affari. Se non segui questo rituale, non otterrai mai nulla.”

      “Sì, signora,” dissi, portando la mano alla fronte.

      “Sono seria. Se fai le cose di fretta, parli velocemente e non dici le cose giuste, faranno finta di ascoltarti e anche se crederai che stia andando tutto bene, non sarà così.”

      Tenni a freno la mia allegria. “Lo so che sei seria, e apprezzo il tuo aiuto.”

      “Comunque, lascia che parli io.”

      Non ero molto brava a lasciare che qualcuno parlasse per me, ma ci avrei provato.

      Eravamo ormai nel centro della città e dovetti improvvisamente sterzare per evitare una limousine che stava uscendo da un parcheggio proprio davanti a noi. Mentre mi rimettevo a sinistra, sentii uno scricchiolio sotto una delle ruote. Suonai il clacson. Già era difficile guidare a sinistra, e adesso questo. Diedi uno sguardo allo specchietto retrovisore per leggere la targa. Una targa personalizzata. Ovviamente. Diceva, “BondsEnt”.

      “Quello è il mio futuro marito,” disse Ava, indicando la limousine.

      “Sul serio?”

      “Nah, è solo abbastanza ricco da mantenermi.”

      Un isolato più avanti, sentii un tum, tum, tum. Gomma a terra.

      “Merda,” dissi, accostando.

      “Domenica mattina,” disse Ava, come se in qualche modo spiegasse l’accaduto. Devo averla guardata con fare interrogativo, poiché aggiunse, “Vetri rotti delle feste in città.”

      “Ah,” dissi. Una donna di molte parole.

      “Non è un problema,” disse Ava, balzando fuori.

      La seguii sul marciapiede. Scossando appena i capelli, una folla di uomini caraibici si fiondarono lì per darle una mano.

      “Ah, mehson, i tuoi muscoli stanno facendo un ottimo lavoro.” Lusingò i suoi aiutanti, chinandosi in avanti in modo da mostrare la scollatura.

      “Posso mostrarti altri modi di usarli, se vuoi,” rispose.

      “Lah, sei troppo per una ragazza come me. Le altre donne devono litigare per te giorno e notte.”

      “Sei l’unica ragazza per me, Ava. Sai che se mi vuoi, io sono qua.”

      Una volta finito di cambiare la ruota, Ava si liberò della folla senza troppi sforzi. Rientrammo in auto.

      “Sei stata incredibile,” dissi.

      Ava si limitò a sorridere.

      Continuammo a guidare per il centro e i suoi edifici in stile danese. Predominavano pareti in stucco e archi di diversi colori e dimensioni. Praticamente tutte le altre costruzioni erano ridotte allo sfacelo. Ad alcune mancava il tetto. Colpa degli uragani, forse? Altre avevano appena una pila di macerie al posto dei muri. La gente del posto si ritrovava a piccoli gruppi agli angoli delle strade. Più spesso di quanto mi aspettassi, sorpassammo dei senzatetto sgangherati che spingevano carrelli pieni di oggetti di fortuna. I turisti, in maglietta e pantaloncini, si facevano strada tra i locali con le loro straripanti buste della spesa e coni gelato tra le mani.

      Presto, però, superammo il centro. Ai margini della città, arrivammo ad un edificio in stile danese a due piani, color carta da zucchero. Quartier generale della Polizia. Entrammo nel parcheggio e uscimmo dall’auto.

      Era ora di fare la cosa giusta, per mamma e papà.

      Otto

      Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane

      18 agosto 2012

      Ava si era accordata per vedersi con il suo amico alle 11:30 in punto. Entrammo nel vecchio edificio che fungeva da Stazione di Polizia con quindici minuti di ritardo, che Ava commentò essere “quasi in anticipo”. Ava, con il suo fare semplice e sexy, ed io, che cercavo di trattenermi dall’essere sempre di corsa, sfoggiando un ridicolo stile virgineo in confronto a lei, con il mio prendisole bianco. Tolsi gli occhiali da sole e li ficcai nella custodia, in borsa.

      “Buongiorno,” annunciai, entrando nella stazione. Un coro di “buongiorno” si propagò per la stanza in risposta. Quasi mi misi a ridere. Ava si girò per guardare se la stessi prendendo in giro, poi si complimentò con me con un cenno del capo.

      “Buongiorno. Siamo qui per incontrare Jacoby,” disse all’impiegata seduta alla scrivania dietro al front desk, interrompendo il suo dolce far niente.

      Ava fu immediatamente circondata da agenti che offrivano il proprio aiuto, da chi diceva di conoscere Jacoby, di essere Jacoby, di essere più uomo di quanto Jacoby sarebbe mai stato. Affollarono la reception al primo piano, una stanzetta che probabilmente, cent’anni prima, era stata il salotto di qualcuno. Adesso era arredata con sedie pieghevoli e un tavolino da caffè in laminato, ricoperto da riviste e giornali piuttosto consumati. Ne presi uno, mentre Ava teneva a bada gli ammiratori, e lessi oziosamente dell’acquisizione di una compagnia telefonica locale


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