Scambi. Marco Fogliani

Scambi - Marco Fogliani


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seduto in mezzo al campo di gioco, percependo distintamente l'umidità del prato ed il solletico dei fili d'erba sulla pelle delle gambe.

      “Dai, su: prova ad alzarti”, e mentre si rimetteva in piedi scoprendo che effettivamente il dolore si era trasformato in un minimo fastidio, sentì la folla dello stadio fischiare e gridare a gran voce: “Ra-ul, Ra-ul”

      Guardò in alto, e vide centinaia, forse migliaia di persone che acclamavano a lui, anzi a Raul, o forse era la stessa cosa.

      “Sì”, pensò, “magari poi ci andrò dallo specialista: ma adesso proprio non posso deluderli”.

      Cominciò a muoversi e a correre. “Forse è un sogno come stanotte”, pensò. Ricevette subito un passaggio, ma perse palla malamente. Qualcuno fischiò. No, non era esattamente come nel sogno della notte prima. Ricevette un'altra palla e non riuscì neanche a controllarla; stavolta i fischi furono molto sonori. Gli altri sì che sapevano giocare, pensò. Si rese conto che non poteva rimanere in mezzo al campo. Fu preso da un tale sconforto, una tale disperazione, che il dolore alla caviglia gli parve riacutizzarsi. Si lasciò cadere per terra, pensando: “Se è un brutto sogno, forse mi sveglierò”. Ed invece non si svegliò. Rimase per terra, con le mani a coprirsi gli occhi, più per la vergogna che per il dolore, finché alla prima pausa di gioco non tornò il signore di prima in tuta gialla e verde.

      “Che hai, che ti ha preso?”, gli chiese quello.

      “No, non posso continuare a giocare. Mi deve far sostituire, assolutamente. È l'unica cosa da fare.”

      Poi, fingendo di zoppicare e sorretto da quello che evidentemente era il medico della squadra, si portò oltre la linea laterale del campo, a ridosso della panchina. Nonostante il disappunto dell'allenatore, con gran sollievo di Riccardo entrò poco dopo il suo sostituto; e Riccardo (Raul per tutto il resto del mondo), dopo qualche ulteriore controllo da parte del medico, prese posto in panchina.

      Era divertente guardare la partita così da vicino, anche se lo spettacolo era molto calato per l'assenza di quello che fin lì era stato decisamente il migliore in campo. Ma chi era poi costui, pensò Riccardo: sono davvero io? Si sforzò di guardare verso la curva, da dove gli risultava che un gruppetto di tifosi tra cui egli stesso Riccardo stessero seguendo l'incontro. Sperava di riuscire a vedersi laggiù, ma la distanza era troppa.

      Cosa avrebbe dovuto fare? Adeguarsi a questa improvvisa ed assurda svolta che aveva preso il corso della sua vita; oppure contrastarla, cercando di riportare la sua esistenza sui binari della normalità? All'inizio, decidendo di non decidere, si rispose che per il momento preferiva godersi la partita, poi ci avrebbe pensato.

      “Riccardo! Raul, Raul. Sono Riccardo.” A un tratto, nella confusione e nel frastuono di voci dello stadio gremito, gli parve di distinguere queste parole. “Raul, sono Riccardo Boccadoro. Ti prego, vorrei parlarti.”

      Stavolta era sicuro di quello che aveva sentito: era stato pronunciato il suo nome, qualcuno si indirizzava a lui. Riccardo si alzò, cercando di individuare alle sue spalle chi lo stesse chiamando; ma dietro a sé il campo visivo era quasi completamente ostruito dalla panchina.

      “Ci vediamo fra cinque minuti allo spogliatoio: ti prego, Raul, non mancare.”

      “Lo conosci davvero questo ragazzo?”, gli chiese un compagno di squadra seduto lì di fianco.

      “Sì, lo conosco.” Per un attimo fu tentato di chiedergli come arrivare agli spogliatoi; ma poi si disse che li avrebbe trovati da solo, senza destare inutili sospetti.

      Zoppicando si infilò giù per delle scale in un corridoio che sembrava vuoto, a parte una guardia della sicurezza.

      “Raul, due parole al volo per Radio Campione?”, gli chiese un giovane trafelato, ben vestito ed armato di cuffie e microfono, sorprendendolo alle spalle.

      “Vi prego, adesso no, lasciatemi andare a cambiare. È di qua il mio spogliatoio, vero?”

      “Sì. Ma come ti senti? La caviglia ti fa male?”

      “Sì, molto. Ma ora lasciatemi in pace.”

      Aprì la porta di quello che gli sembrava essere uno degli spogliatoi. Non vedendo nessuno stava per richiuderla, ma si sentì chiamare:

      “Riccardo. Sono qui.”

      Rimase a bocca aperta. Di fronte a lui c’era un altro se stesso che indossava un cappotto e un paio di pantaloni che ben conosceva: gli mancava solo la sua sciarpetta biancorossa.

      “Ma è incredibile: sei uguale spiccicato a me!”

      Rimasero un po’ a fissarsi, increduli; poi l’altro, che da adesso in poi per comodità chiameremo Raul, lo portò con sé davanti ad uno specchio.

      “Qualche differenza c’è. Io ero un po’ più alto, con una massa muscolare più sviluppata e senza questo brutto neo sotto la mascella. Insomma, ero un pochino più bello, ora sono un po’ più bruttino.”

      “Già. In compenso io ho una caviglia che prima stava bene e che adesso mi fa male.”

      “Senti: non so che cosa tu abbia combinato, ma sembra che almeno mi siano rimasti l’accento portoghese e l’abilità nel giocare a pallone. Che ne diresti se ci scambiassimo i vestiti, prima di combinare qualche altro pasticcio irreparabile?”

      “Sì, scambiamoci i vestiti: mi sentirò più a mio agio. Comunque ti assicuro che io non ho fatto niente. Mi sono solo trovato lì, al tuo posto.”

      “Spero solo di non perdere la maglia da titolare, dopo quanto hai combinato.”

      Raul si spogliò e si fece una rapida doccia. Anche Riccardo decise di fare lo stesso. “Puoi usare il mio shampoo e la mia roba, se vuoi”, gli disse Raul.

      Si rivestirono tornando ognuno nei propri abiti civili. Quelli di Raul erano notevolmente più eleganti.

      “Ti lascio il mio numero di cellulare per qualunque evenienza”, gli disse Raul estraendo dal suo portafoglio un biglietto da visita. “Non lo dare a nessuno, è il mio numero super privato. E soprattutto mi raccomando: non fare parola di quanto è successo, soprattutto con la stampa. Altrimenti potresti rovinarmi la carriera.” Tirò fuori anche due banconote di grosso taglio: “Queste sono per il disturbo, e per la visita medica. Buona fortuna.” Raul gli strinse la mano per salutarlo, e se ne stava andando.

      “Aspetta: chi ci assicura che non succederà di nuovo?” obiettò Riccardo.

      Raul si fermò a riflettere. “Hai ragione. Potrebbe succedere ancora. Forse è meglio che restiamo insieme per un po’. Però cerchiamo di non farci notare.”

      Col bavero alzato per nascondersi il più possibile, Raul fece strada a Riccardo, imbacuccato nella sua sciarpa biancorossa ritrovata arrotolata nella tasca del cappotto, e sgattaiolarono fuori dallo stadio evitando qualunque possibile incontro. Una volta al sicuro da tifosi e giornalisti, Raul chiamò un taxi col cellulare.

      “Andiamo in centro: è meglio rimanere lontano da qui per almeno un paio d’ore. Anzi, ho un’idea migliore.”

      Chiamò qualcuno della squadra, forse l’allenatore. Con un accento portoghese più marcato - che evidentemente faceva parte della sua immagine pubblica, ma che volendo poteva attenuare – riferì qualcosa di un suo cugino che era venuto a Roma, e avvertì che sarebbe tornato in sede con mezzi propri.

      “Davvero ti è venuto a trovare un tuo parente?”, chiese Riccardo al termine della telefonata.

      “Sì: sei tu il mio cugino di cui parlavo. Sei molto credibile in questo ruolo, non è vero? Scherzi a parte, tutti i miei parenti sono in Brasile. È più di un anno che vivo da solo in Italia; ma questo paese mi piace molto.”

      “E il tuo papà e la tua mamma ti mancano?”

      “Sì, abbastanza; e anche i miei fratelli e le mie sorelle, cinque in tutto. Ma non mi dimentico di loro. Ogni mese gli mando un po’ di soldi. Qui io guadagno bene, ed in Brasile si sopravvive con poco. Ecco un taxi, deve essere il nostro.”


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