Nuovi poemetti (1909). Giovanni Pascoli

Nuovi poemetti (1909) - Giovanni  Pascoli


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La recchia levò il muso.

      «Siete d’età,» l’uomo riprese: «eh nonna?

      Ma voi siete altra tiglia! A voi fa prode

      l’aria di monte e l’acqua di Corsonna».

      Ma la vecchina non sentì la lode.

      Smerlucciò tra i castagni, quasi intorno

      fosse, a qualch’ombra, l’angiolo custode.

      Ell’era nata lo stesso anno e giorno!

      E da vent’anni le diceva il cuore

      che farebbero insieme anche il ritorno.

      «O dunque c’è la diceria, che muore?»

      «Più troppo!» Dunque non vedrebbe il rosso

      delle fragole e il nero delle more!

      «Addio ‘n salute!» «Addio». «L’uno pel fosso,

      e l’altra prese per uno sgaruglio.

      Avea le gambe flosce, il fiato grosso.

      Tornava a casa. O Vergine di luglio!

      o bianca nuviletta del Carmelo!

      La recchia dietro lei qualche cespuglio

      brucava, e poi stradava con un belo.

III

      «Ta ta, Nina, ta ta». Come gagliardi

      eran quei tre castagni suoi! Che mèsse!

      che cimi! E la chioccetta era nei cardi!

      Il suo figliolo quando vi cogliesse,

      nella sera che accecano il metato,

      sì, penserebbe a farle dir due mésse.

      Buttar due lire uguanno non fa stato.

      Uguanno è annata, se non è lo strino

      che c’entri prima ch’abbiano animato.

      La vecchietta era giunta al casalino;

      ma non l’antico suo paiòl di rame

      appese alla catena del camino.

      Era avvilita, e non le facea fame!

      Mise un lenzuolo bianco al sacconcello,

      ma prima un poco ne rumò lo strame.

      Poi si portò su l’uscio uno sgabello.

      Sedé movendo ad or ad or la bocca.

      Aspettò che venisse il suo gemello.

      Sgranava qualche rappa nella cocca

      del pannello, e chiamava Curre! Curre!

      Poi, rinfilata nel pensier la rócca,

      filava in mezzo alle montagne azzurre.

IV

      Dan dan… dan dan… Passava un carbonaio

      col suo muletto. «O Chiozza, se vedete

      il Ciampa, il mi’ figliolo di Renaio,

      ditegli, se non è per le faggete,

      che non l’ho visto da non so mai quanto,

      e che cammini. E ditel anco al prete.

      Venga di quella via con l’olio santo».

      «Servirò. Ma che avete? O che vi sente?»

      «O Chiozza, è l’ora che par poco il tanto!»

      «Che dite, nonna?» «Anzi non par più niente!»

      «Coraggio!» «Più che vecchi, non si campa.

      Da Roma il Papa ha da venire…» «O gente!»

      «E voi sapete leggere?» «La stampa».

      «Che scrivono?» «Che muore». «Ecco, tra poco

      andrò con lui. Se lo vedete, il Ciampa,

      il mi’ figliolo…» Ella parlava fioco,

      l’altro ripiva. Le montagne in faccia

      brillavano d’un grande orlo di fuoco.

      Dan dan… Sul petto ella piegò le braccia.

      Dovean sonare Avemarie dintorno.

      Dan dan… dan dan… Era finita l’accia,

      e pieno il fuso, e terminato il giorno.

V

      Il giorno dopo il Ciampa (era ai vincigli

      poco lontano) entrò senza picchiare

      col più piccino dei suoi sottofigli.

      La trovò che sfaceva col cucchiare

      nel laveggino nero una brancata

      di farina, in ginocchio al focolare.

      «Ch’ha detto il Chiozza, ch’érite malata?»

      «Oh! Gigi! Ahimè che tremo ho fatto! Provo

      se mi fa bono un po’ di farinata».

      «Più bono, o mamma, vi farebbe un ovo».

      «Con l’ova abbiamo da comprare il sale».

      «O dunque, mamma, cosa c’è di novo?»

      «Forse, figliolo, c’è più ben che male».

      «Dio v’ascolti». «O codesto rapacchiotto?»

      «È il Gigino del mi’ pover Natale».

      «Dio lo riposi. E in quanti sono?» «In otto».

      «Polenta vi ci vuole ora e coraggio!»

      «Su dunque, Nini: porgigli il ricotto».

      Nelle sue frasche e’ lo tenea, di faggio,

      verdi, col cimo in dentro e fuori il calcio:

      un fardelletto bello come un maggio,

      legato con un torchiettin di salcio.

VI

      Ella guardò, mestando. «O che gli porti,

      Nini, alla nonna? O che tu l’hai saputo

      ch’io vado in pace, a ritrovare i morti?

      Che glielo faccio a babbo, omo, un saluto?

      Che gli dico del bimbo? Eh! gli vuol detto

      ch’è savio, che dà retta, ch’è d’aiuto;

      ch’ha il grembialino, ch’ha il rastellinetto,

      che va colle sue genti alle faccende,

      anco alla ruspa dopo fatto appietto;

      e ch’abbada alle pecore, e contende

      se vanno al danno, e poi che fa in Corsonna

      le vetrici e le monda e le rivende.

      Va colassù, va colassù la nonna,

      con uno che ci sa; che può, se vuole,

      anco portarla avanti alla Madonna.

      Da lui si farà dire le parole

      per benedire i figli de’ suoi figli

      coi lor figlioli e colle lor figliole;

      perché Dio vi protegga e vi consigli,

      e abbiate ogni anno lo stabbiato e il frutto,

      e lana e legna, e le fronde e i vincigli,

      e la polenta d’ogni giorno, e tutto.»

VII

      La


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