Nuovi poemetti (1909). Giovanni Pascoli

Nuovi poemetti (1909) - Giovanni  Pascoli


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in un godo

      del soppianello due cucchiai di bosso.

      Prese anche il suo ch’era attaccato al chiodo.

      Staccò il laveggio, a stento, dall’uncino:

      riempì tre pianette: il tutto a modo.

      Poi prese il fior di latte: anche, a modino,

      aprì le frasche, e giù, per non lo sfare,

      lo sbacchiò sopra un borracciòl di lino.

      E mangiarono avanti il focolare

      in pace e amore, con di tanto in tanto

      quattro parole, a cucchiaiate rare.

      Il bimbo in terra era seduto accanto

      alla bisnonna, e spesso dalle dita

      di lei pigliava un suo bocconcin santo.

      L’uscio era aperto. I fior di margherita

      non aprivano ancora le corolle

      di su le crepe della soglia erbita.

      Brillava al sole ogni albero, ogni colle;

      ma la casuccia si godeva ancora

      l’ombra sua propria, piccola, ancor molle

      della guazza caduta in su l’aurora.

VIII

      «Sentite, Gigi. La recchietta voglio

      che la meniate ora con voi nel branco.

      È avvezza a qualche filo di trifoglio…

      Un po’ di tela c’è tavìa nel banco.

      Ho due lenzuola nove; anco un rotello,

      da tanto tempo, ch’ha riperso il bianco.

      Ci troverete qualche buon guarnello,

      persino una sottana con la gala,

      che mi son fatte, là per là, bel bello.

      Faccio per dire che non son cicala

      ch’ha un sol vestito, e quando è liso, muore.

      Ma poi, sentite: penso a quella scala…

      Ditelo, Gigi, con le vostre nuore,

      che quell’andare su la scala in chiesa,

      così legata, m’è una spina al cuore!

      Almeno almeno, senza vostra spesa,

      vuo’ per amor di Dio che mi mettiate

      quella camicia nova ch’è lì stesa.

      Io l’ho cucita, al sole della state;

      io l’ho sbiancata, al lume della luna;

      io l’ho tessuta, per le gran nevate;

      filata, presso qualche vostra cuna».

IX

      Il bimbo era lì fuori. Ella più presso

      si fece al vecchio. «A Dio non si nasconde

      quello che al prete, ed anche a voi confesso.

      Ho fatto a volte un carico di fronde

      in quel del Maso». «Un carichello!» «Ho colte

      nel suo, prima dell’alba, le sue gronde».

      «Altro che gronde, il pover Maso!» «A volte,

      per due fagioli, m’allungavo all’orto.

      Menavo a bere le mie bestie sciolte…»

      «Ma il pover Maso…» «Il pover Maso è morto!

      Fatemi dir due messe, una per Maso,

      una per me…» «Si fanno dire accòrto».

      Erano usciti. «Siete persuaso?»

      «Sì». «La recchietta vuol menata a mano

      su le prime». «Si sa». «Fatene caso».

      «Addio, madre». «Addio Gigi… State sano.

      Addio, Nina. O che beli? Io mi contento

      d’ire con lui che sta così lontano!»

      Ai monti sparsi d’un vapor d’argento

      ella accennava con la mano arsita,

      e foglie secche, mosse un po’ dal vento,

      parean in aria le sue cinque dita.

X

      Quel giorno un tuono rimbombò che scosse

      l’alta montagna, e, terminato il tuono,

      invïò l’acqua a gocce rade e grosse.

      Ed un’acquata venne giù col suono

      d’un gran passaggio con un grande struscio.

      A sera il tempo era tornato al buono.

      Il cielo aveva l’iridi del guscio

      di madreperla. Stava lì tranquilla

      nel suo lettino, con aperto l’uscio,

      la vecchina, se udisse ora la squilla

      del sagrestano, si vedesse alfine

      venir l’ombrella color bianco e lilla,

      salir di qua di là tante stelline,

      salir cantando, con in mano un cero,

      una fila di donne e di bambine.

      E già scuriva. E sì, vedeva, in vero,

      splender ora più fitte ora più rare

      le luccioline avanti l’uscio nero.

      Quante candele c’erano al sogliare!

      Udiva, sì, cantare; ma lontane

      erano ancora, colaggiù; cantare

      cantare le ranelle con le rane.

XI

      E levò gli occhi, e ravvisò la strada,

      nel cielo azzurro, tra le stelle ardenti

      bianca ma quasi molle di rugiada,

      la tacita sul sonno delle genti

      strada di Roma. Un tratto ne lucea

      nel breve spazio in mezzo ai due battenti:

      un sentieròlo con una macea,

      lassù nel cielo: un pallido biancore

      presso le stelle di Cassiopea.

      Al capo della via, forse a quell’ore

      prendea con le due mani il pastorale,

      e si levava su forse il pastore.

      Forse veniva tra un sussurro d’ale

      d’angeli per l’azzurro cielo, e un coro

      d’anime nel silenzio siderale.

      E passando cantavano, V’adoro

      ogni momento… sopra gli alti monti.

      Ed egli aveva la sua mitria d’oro.

      Splendean le selve, risplendean le fonti,

      al suo passaggio, d’un baglior fugace

      che ancor passava su le bianche fronti

      d’uomini e donne addormentati in pace.

XII

      Per quella via… Ma quella era la via

      dell’Universo,


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