Alla conquista di un impero. Emilio Salgari
per giungere presso il dio, quando parve loro di udire come il cigolìo d’una porta che s’apriva.
Tutti si erano arrestati, poi i dayachi ed i malesi con una mossa fulminea rinserravano come entro un cerchio Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, puntando le carabine in tutte le direzioni.
Attesero per qualche minuto, senza parlare, anzi quasi senza respirare, poi Yanez ruppe pel primo il silenzio.
– Possiamo esserci ingannati, – disse. – Se qualche sacerdote fosse entrato, a quest’ora avrebbe dato l’allarme. Che cosa dici tu, Bindar?
– Penso che quel rumore sia stato prodotto dallo scricchiolìo di qualche trave.
– Cerchiamo l’anello, – disse Sandokan. – Se verranno a sorprenderci sapremo accoglierli per bene. —
Fecero il giro del mostruoso dado di pietra reggente l’incarnazione di Visnù e trovarono subito un massiccio anello di bronzo su cui si scorgeva un alto rilievo rappresentante una conchiglia: la pietra di Salagraman.
Un’esclamazione di gioia a mala pena soffocata, era sfuggita dalle labbra del portoghese.
– Ecco quella che mi aiuterà a conquistare il trono, – disse. – Purché si trovi realmente sotto i nostri piedi.
– Se non la troveremo, ti accontenterai di quella che è disegnata su questo anello, – disse Sandokan.
– Ah no! voglio la vera conchiglia! – rispose Yanez.
– Non so perché ci tieni tanto. —
Il portoghese, invece di rispondere, disse, volgendosi verso i suoi uomini:
– Alzate. —
Due dayachi, i più robusti del drappello, afferrarono l’anello e con uno sforzo non lieve alzarono la pietra la quale misurava quasi un metro quadrato.
Yanez e Sandokan si curvarono subito sul foro e scorsero una stretta gradinata che scendeva in forma di chiocciola.
– Quel carissimo Kaksa Pharaum è stato d’una esattezza meravigliosa! Che spaventi producono talvolta certe colazioni! Scommetto che non ne farà più una in vita sua e che si accontenterà di sole colazioni. —
Così dicendo Yanez prese ad un dayaco una torcia, armò una pistola e scese coraggiosamente nei sotterranei del tempio.
Tutti gli altri, uno ad uno l’avevano seguìto, preparando le carabine. Nessuno aveva pensato all’imprudenza che stavano per commettere.
Scesi diciotto o venti gradini si trovarono in una spaziosa sala sotterranea che probabilmente, migliaia d’anni prima aveva servito da tempio a giudicarlo dalla rozzezza delle sculture, appena segnate sulle pareti rocciose, rappresentanti le solite incarnazioni del dio conservatore.
Gli occhi di Yanez si erano subito fissati su un dado di pietra sormontato da una piccola statua di terracotta, raffigurante un bramino nano.
– La pietra deve essere nascosta lì sotto, – disse.
Con un calcio atterrò quel mostro, mandandolo in pezzi e subito un grido di gioia gli sfuggì.
In mezzo al masso coperto dal basamento della statua, aveva veduto un cofano di metallo, con altirilievi di squisita fattura.
– Ecco la pietra famosa! – esclamò trionfante. – La corona dell’Assam è ormai di Surama. —
Senza chiedere aiuto a nessuno, tolse il cofano dal suo nascondiglio, e vedendovi dinanzi un bottone al posto dove avrebbe dovuto trovarsi la serratura, lo premette con forza.
Il coperchio s’aprì di colpo e agli sguardi di tutti comparve una conchiglia pietrificata, di colore nerastro.
Era la tanto venerata pietra di Salagraman contenente il famoso capello di Visnù.
5. L’assalto delle tigri
Gli indiani che adorano Visnù, hanno una straordinaria venerazione per le pietre di Salagraman le quali, come abbiamo già accennato, non sono che delle conchiglie pietrificate del genere dei corni d’Ammone, ordinariamente di colore nerastro, perché credono fermamente che esse rappresentino sotto quella forma il loro dio.
Vi sono nove specie di pietre di Salagraman, come si contano, fra le più note, nove incarnazioni di Visnù, e sono tutte tenute in grande conto come il lingam che è venerato dai seguaci di Siva e che rappresenta, sotto una strana forma che non si può descrivere, la creazione umana.
Chi ha la fortuna di possedere tali conchiglie, le porta avvolte sempre in bianchissimi lini e ogni mattina le lava in un vaso di rame indirizzando a esse molte e stravaganti preghiere.
I bramini pure le tengono in molta venerazione e, dopo averle lavate, le pongono su un altare dove le profumano in presenza dei fedeli ai quali poi danno da bere un po’ d’acqua entro cui hanno lavato il Salagraman e ciò affine di renderli puri e mondi d’ogni peccato.
La conchiglia però che rendeva orgogliosi i religiosi dell’Assam, non era una di quelle comuni. Aveva delle dimensioni straordinarie per appartenere al genere dei corni d’Ammone, per di più era d’una splendida tinta nera e poi possedeva nel suo interno un capello del dio, mai veduto forse da nessuno, ma giacché i gurum lo avevano affermato, bisognava ben crederci. L’avevano letto sugli antichissimi libri sacri e basta.
Quale importanza poteva avere quella conchiglia pel portoghese, che non era mai stato un adoratore di Visnù, lo vedremo in seguito. Già nemmeno Sandokan, né il suo amico Tremal-Naik erano riusciti a saperlo, tuttavia conoscendo l’astuzia profonda del terribile consumatore di sigarette si erano accontentati di lasciarlo fare e di aiutarlo con tutte le loro forze.
Quel diavolo d’uomo, che aveva giuocato dei tiri meravigliosi perfino al famoso James Brooke ed a Suyodhana, poteva ben farne uno anche al rajah dell’Assam, per porre sulla bellissima fronte di Surama, la sua fidanzata, la corona del barbaro principe e conservarne una metà per sé.
Yanez, dopo essersi ben assicurato che quella era veramente la tanto celebrata conchiglia che il giorno innanzi i sacerdoti della pagoda avevano condotto a passeggio per le principali vie di Gauhati, con immensa gioia della popolazione, aveva rinchiuso il coperchio, poi aveva afferrato il prezioso cofano, dicendo ai suoi compagni:
– Ed ora in ritirata!
– Vuoi altro? – gli aveva chiesto Sandokan un po’ ironicamente.
– Qui dentro sta la corona della mia fidanzata. Vuoi che pren
da anche la pagoda?
– Se la volessi!…
– Non ne ho bisogno per ora. Prendiamo il volo prima che i sacerdoti si risveglino. Armate le carabine! —
Uno scricchiolìo secco lo avvertì che i malesi e i dayachi non avevano atteso un nuovo ordine.
Si slanciarono tutti sulla stretta scala, salendola frettolosamente quando ad un tratto una bestemmia sfuggì dalle labbra del portoghese, che era alla testa del drappello.
– Che Visnù sia maledetto!…
– Che cosa c’è, fratellino bianco? – chiese Sandokan, che gli stava dietro con Tremal-Naik.
– C’è… c’è… che hanno rimesso a posto la pietra!
– Chi! – chiesero ad una voce la Tigre della Malesia e Tremal-Naik.
– Che ne so io?
– Saccaroa! Siamo stati dei veri stupidi! Ci siamo dimenticati di lasciare almeno un paio d’uomini a guardia dell’uscita! Che sia caduta da sé?
– È impossibile, – rispose Yanez, che era diventato un po’ pallido. – La pietra era stata deposta a quattro o cinque passi dall’apertura.
– È vero, signor Yanez, – dissero i due dayachi, che l’avevano sollevata.
Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano guardati l’un l’altro con una certa ansietà.
Per qualche istante fra quei tre uomini, rotti a tutte le avventure e coraggiosi fino alla follia, regnò