Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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andare a finire nel Gange anche senza questa tavola che è più necessaria a me che a te – disse Yanez. – E poi il tuo profumo non mi piace affatto. Va’ e buon viaggio! —

      Con una spinta vigorosa gettò il cadavere in acqua assieme alla lampadina e si issò sulla tavola.

      – Cerchiamo ora di orientarci, – mormorò. – Gli altri penseranno a mettersi in salvo come potranno.

      Già, di Sandokan, di Tremal-Naik e dei miei uomini sono sicuro. —

      Si,guardò intorno e gli parve di riconoscere la riva destra.

      – È là che devo sbarcare, – disse.

      Si gettò bocconi sulla tavola e servendosi delle mani come di remi, guidò il galleggiante funebre attraverso il fiume.

      La corrente non era forte, avendo quasi tutti i corsi d’acqua dell’India pochissima pendenza, sicché gli riuscì facile raggiungere la riva.

      Abbandonò la tavola e prese terra. In quel luogo non vi erano che delle risaie: capanne, nemmeno una.

      – Rimontando verso levante giungerò al tempio sotterraneo, – mormorò. – Non deve essere molto lontano.

      Affrettiamoci, o desterò una pericolosa curiosità io, uomo bianco, senza giacca e senza stivali e con un bagaglio sulle spalle. —

      Si mise rapidamente in marcia, seguendo sempre la riva, che era fiancheggiata da grossi alberi fra i cui rami cominciavano già a volteggiare delle singalika, quelle magrissime scimmie che sono così numerose in India, alte quasi un metro, con una specie di barba, che dà a loro uno strano aspetto e che sono lo spavento dei poveri contadini, ai quali distruggono senza misericordia i raccolti.

      Yanez, che vedeva, non senza inquietudine, approssimarsi l’alba, affrettava il passo. Aveva già oltrepassata l’isola su cui sorgeva la pagoda di Karia, non doveva quindi essere molto lontano dal tempio sotterraneo.

      Di quando in quando s’arrestava un momento sperando di scorgere la bangle e non vedeva invece altro che delle lunghe file di grotteschi uccellacci, d’aspetto decrepito, semi-spelati, col becco lunghissimo e robusto.

      Erano i marabù che attendevano pazientemente il passaggio di qualche cadavere, umano o animale, poco importava, per dargli addosso ed in quattro e quattro otto farlo scomparire nei loro mai pieni stomachi.

      Il sole dardeggiava i suoi primi raggi sulle acque del Brahmaputra, quando Yanez giunse dinanzi al tempio sotterraneo, sulla cui porta vegliava un uomo, che aveva l’aspetto d’un fakiro.

      – Ah! Signor Yanez! – esclamò quell’uomo alzandosi.

      – Kammamuri! – aveva esclamato il portoghese.

      – Nella pelle d’un biscnub, signore, – rispose il maharatto ridendo – che non ha però rinunciato né alle ricchezze, né ai piaceri della vita, né ai beni di questo mondo come i miei correligionari.

      – Sono tornati?

      – Il signor Sandokan ed il mio padrone? Vi aspettano a colazione da una buona mezz’ora.

      – E gli altri?

      – Vi sono tutti. Sono giunti su una bangle.

      – Ed il ministro?

      – È sempre al sicuro, ma ho paura che quel povero diavolo muoia di spavento.

      – I tuoi compatriotti hanno la pelle troppo dura per andarsene così presto in grembo a Siva o a Brahma. —

      S’aprì il passo fra i cespugli che nascondevano l’entrata e si cacciò nei corridoi del tempio, che erano guardati da malesi e da dayachi armati di carabine e di scimitarre.

      Quando giunse nell’ultima stanza, che già abbiamo descritta e che era sempre illuminata dalla lampada non avendo alcuna finestra, trovò seduti dinanzi alla tavola Sandokan, Tremal-Naik ed il ministro.

      – Finalmente! – esclamò il primo. – Stavo per mandare alcuni uomini a cercarti, quantunque io non dubitassi che ci avresti raggiunti.

      – Non ho potuto raggiungere la bangle. Di ciò parleremo più tardi. Lascia che mi cambi, ché gocciolo da tutte le parti e fa’ portare la colazione.

      Quel bagno mi ha messo indosso un appetito da tigre.

      – E metti al sicuro la tua famosa conchiglia, – disse Tremal-Naik.

      – Dopo: bisogna che il signor ministro la veda. —

      Passò in una stanza attigua e si cambiò rapidamente, indossando un vestito di flanellina bianca, assai leggera.

      Quando rientrò, la tiffine, o colazione fredda all’inglese, era pronta: carne, birra, biscotti. Il cuoco però aveva aggiunta una terrina di carri per S. E. il ministro, non mangiando carne di bue gli indiani.

      – Mangiamo per ora, – disse Yanez – e voi, Eccellenza, rasserenate un po’ il vostro viso e bevete pure la nostra birra.

      Vi do la mia parola che non contiene, questa, nessun pezzetto di grasso di mucca. —

      Invece di rasserenarsi, il ministro si fece ancor più oscuro in viso, nondimeno non respinse il carri che Yanez gli offriva, né una tazza di birra.

      Mentre mangiavano con un appetito invidiabile, i due pirati della Malesia e Tremal-Naik, si raccontavano le avventure a loro toccate durante la perigliosa evasione.

      Anche Sandokan e l’indiano avevano avuto da fare non poco a uscire dalle volte sommerse, ma più fortunati del portoghese non avevano incontrata nessuna balena d’acqua dolce ed avevano potuto raggiungere felicemente la bangle dove avevano già trovati i dayachi ed i malesi.

      Temendo di venire da un momento all’altro sorpresi dai sacerdoti, non avevano indugiato a prendere il largo, convinti che Yanez se la sarebbe facilmente cavata da sé.

      Quando la colazione fu terminata Yanez accese, come di consueto, l’eterna sigaretta, mise il cofano dinanzi al ministro e l’aprì levando la preziosa conchiglia.

      – È questa, proprio questa la famosa pietra di Salagraman? – chiese al ministro che la guardava sbigottito. – Rispondetemi Eccellenza. —

      Kaksa Pharaum fece col capo un cenno affermativo.

      – Uditemi ora e badate di non rispondermi con dei soli cenni. Esigo da voi delle importanti dichiarazioni.

      – Ancora? – brontolò il ministro, che sembrava di pessimo umore.

      – Ci tiene molto il re a possedere questa pietra di Salagraman?

      – Più di voi certo, – rispose Kaksa Pharaum. – Come si potrebbero fare le processioni senza quella preziosa reliquia, che tutti i gurum c’invidiano?

      – Qual è la prossima processione che si farà in pubblico? Voi indiani ne eseguite molte durante l’anno.

      – Quella del maddupongol.

      – Che cos’è?

      – È la festa delle vacche, – disse Tremal-Naik – che si solennizza nel decimo mese di tai, ossia del vostro gennaio, per festeggiare il ritorno del sole nel settentrione e che fa seguito al gran-pongol ossia alla festa del riso bollito nel latte.

      – È vero, – disse il ministro.

      – Quando deve scadere? – chiese Yanez.

      – Fra quattro giorni.

      – Benissimo: per quel giorno il rajah avrà la sua pietra di Salagraman. —

      Il ministro aveva fatto un soprassalto, guardando Yanez cogli occhi dilatati dal più intenso stupore.

      – Volete scherzare, mylord? – chiese.

      – Niente affatto, Eccellenza – rispose Yanez. – Vi do la mia parola d’onore che la pietra ritornerà, per mezzo del principe, nella pagoda di Karia.

      – Io non comprendo più nulla, – disse Kaksa Pharaum.

      – Ed io meno di voi, – aggiunse Sandokan che fumava il


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