Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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bengalese scaricò la carabina ed una delle due tigri, colpita sul muso, s’inalberò come un cavallo che riceve una terribile speronata, poi si accasciò.

      – Salta in acqua, Tremal-Naik! – gridò Sandokan.

      Il bengalese si precipitò giù per la gradinata, credendosi seguìto dal pirata; questi invece era rimasto fermo dinanzi all’ultima tigre che cercava di avvicinarsi, strisciando lentamente.

      – Non voglio che nemmeno tu difenda più mai il tesoro del rajah, – disse il formidabile uomo, – La Tigre della Malesia ti aspetta a piè fermo. —

      La belva aveva risposto con una specie di miagolìo strozzato e aveva fissati i suoi occhi fosforescenti sull’uomo che osava offrirle l’ultima battaglia.

      – Ti aspetto, – ripeté Sandokan, che impugnava la pistola sua e quella di Yanez. – Spicciati: ho fretta di raggiungere i compagni. —

      La tigre spalancò la bocca, mostrando i suoi aguzzi denti, duri come l’acciaio e dalla gola uscì una nota spaventevole che terminò in un vero ruggito, quasi simile a quello che irrompe dal petto dei leoni africani, poi scattò.

      Sandokan, che s’aspettava quell’assalto, fu lesto a gettarsi da una parte, poi sparò i suoi quattro colpi con lentezza studiata, cacciando tutte le quattro palle nel corpo della belva.

      – La Tigre della Malesia ha vinto un giorno la Tigre dell’India uomo – disse, mentre un sorriso d’orgoglio gli compariva sulle labbra. – Ora ho ucciso anche la tigre dell’India animale. —

      Si rimise le pistole nella cintura e mentre la fiera esalava l’ultimo respiro, scese la gradinata e si gettò, senza la menoma esitazione, nelle tenebrose acque del Brahmaputra.

      6. Sul Brahmaputra

      Yanez, appena gettatosi in acqua, si era messo a nuotare vigorosamente, seguendo la corrente, immaginandosi che solamente in quel modo avrebbe potuto trovare il canale di sfogo e rimontare alla superficie.

      Prima d’abbandonarsi non si era dimenticato di riempirsi per bene i polmoni d’aria, ignorando quanto avrebbe potuto durare quell’immersione sotto le ultime volte del tempio.

      Il cofano che portava legato al dorso, gli dava non poco fastidio, tuttavia non disperava di ritornare alla superficie, essendo sicuro delle proprie forze e della propria abilità come nuotatore.

      Credendosi ormai fuori dalle volte, aveva tentato di spingersi in alto, e non senza provare un brivido di terrore, aveva urtato sempre il capo contro una massa resistente.

      – Mi pare che la faccenda diventi un po’ seria, – aveva pensato, raddoppiando le battute delle mani e dei piedi.

      Percorsi altri quindici o venti passi, sempre assordato dai muggiti della corrente che cercava travolgerlo, e sentendosi ormai i polmoni esausti, ritentò l’ascensione, appoggiandola con due vigorosi colpi di tallone.

      La sua testa emerse senza trovare più alcun ostacolo. Le volte non esistevano più e si trovava quasi in mezzo all’immenso fiume, a più di duecento passi dall’isolotto.

      Aspirò una gran boccata d’aria e si rovesciò sul dorso per prendere un po’ di riposo.

      Il sole non era ancora sorto, però le tenebre cominciavano a diradarsi. L’alba non doveva essere lontana.

      – Cerchiamo di raggiungere subito la riva, – disse. – Prima che il giorno sorga è meglio trovarci al sicuro nel tempio sotterraneo. I malesi e i dayachi ci saranno forse già, se non hanno preferito aspettarci nella bangle. Spero che non avranno commessa l’imprudenza d’aspettarci.

      Orsù! Quattro buoni colpi e attraversiamo il fiume prima che il cielo si rischiari e che i sacerdoti della pagoda mi scorgano. —

      Si era rivoltato e stava per scivolare silenziosamente fra due acque, quando sentì un urto che lo fece indietreggiare di qualche passo.

      – Chi mi assale? – si chiese. – Qualche coccodrillo? —

      Levò precipitosamente il kriss e cercò di rimanere immobile.

      Quasi subito vide ergersi dinanzi a lui una brutta testa piatta, di dimensioni simili press’a poco a quella d’un pesce-cane, con una bocca larghissima, armata d’un gran numero di denti acutissimi, fornita agli angoli di certi baffi lunghi quasi due piedi, che davano uno strano aspetto.

      – Per Giove! – esclamò il portoghese. – Io conosco queste brutte bestie e non ignoro quanto siano voraci. Non sapevo che anche nei fiumi dell’India vi fossero delle balene d’acqua dolce! In guardia, amico Yanez: valgono i coccodrilli. —

      Non si trattava veramente d’una balena, quantunque a quei pesci abbiano dato quel nome che nulla giustifica, bensì d’uno squalo d’acqua dolce e meglio ancora d’un siluros glanis.

      Balena, squalo, o siluro, l’avversario era terribile, poiché quei pesci che si trovano solamente nei grossi fiumi, sono d’una voracità incredibile e non esitano ad assalire l’uomo e anche a divorarselo.

      Sono brutti mostri che misurano dai due ai tre metri, col corpo molto allungato che li fa rassomigliare un po’ alle anguille, che come abbiamo detto hanno una bocca larghissima e poderosamente armata, guernita ai lati di sei peli lunghissimi, che pare siano destinati ad attirare i pesci.

      Forti e audaci, costituiscono un vero pericolo anche per gli esseri umani. Che un ragazzo si bagni ed il siluro abbandonerà subito la melma, dove abitualmente si riposa, per assalirlo e divorarlo talvolta intero.

      Nemmeno gli animali sono risparmiati. Che sopravvenga una piena ed ecco lo squalo d’acqua dolce dare la caccia alle bestie che avranno trovato rifugio sulle piante e a gran colpi di coda farle cadere nella sua terribile bocca.

      Yanez, che aveva conosciuto quei pericolosi abitanti dei fiumi nei grandi corsi del Borneo, si era subito posto in guardia per non perdere qualche braccio, o ricevere qualche tremendo colpo di coda.

      Il siluro dopo aver mostrata la sua testa, coperta da una viscida pelle di colore verdastro, erasi subito rituffato ma non aveva tardato a ricomparire, muovendo contro il portoghese.

      Essendo però tali squali piuttosto lenti nelle loro mosse, Yanez aveva avuto il tempo di lasciarsi calare a picco per evitare l’attacco.

      Il siluro non aveva tardato a seguirlo. Aveva però di fronte un avversario degno di lui. Si era appena immerso che il portoghese lo assalì piantandogli il kriss fra le pinne pettorali.

      Fatto il colpo, Yanez chiuse le gambe lasciandosi portare dalla corrente per parecchi metri, tenendosi sempre sott’acqua; poi con due bracciate rimontò a galla e con non poca sorpresa, urtò contro un corpo duro che lo obbligò ad immergersi di nuovo.

      – Un altro squalo d’acqua dolce? – si era chiesto. – Ed io che ho lasciato il mio pugnale nel petto dell’altro!… —

      Si spinse più innanzi rattenendo il respiro, poi risalì ancora. Tornò a urtare, non già colla testa, bensì con una spalla e finì per emergere.

      – Ah! Diavolo! – esclamò. – Che cos’è questo? Una lampada, per Giove! Che odore! —

      Quattro o cinque uccellacci, che avevano le penne nere e becchi immensi, si erano alzati volandosene via.

      – I marabù! – aveva esclamato Yanez. – Allora qui vi è un cadavere! —

      Solo in quel momento si era accorto di aver presso di sé una tavola lunga un paio di metri e larga uno, ad una delle cui estremità bruciava una piccola lampada d’argilla.

      – Questo è un feretro abbandonato alla corrente, – mormorò. – Che incontro poco allegro! Dopo tutto mi aiuterà a reggermi a galla. —

      Allungò le mani e s’aggrappò a quella strana bara che la corrente trasportava. Uno sternuto vigoroso lo colse.

      – Ah! Per Giove! Vi è un morto! Dannati indiani! Col loro sacro Gange cominciano ad annoiarmi. —

      Infatti, steso su quella funebre tavola, destinata a raggiungere il Gange, si trovava il cadavere di un vecchio indiano, quasi nudo, con una


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