Gli ultimi flibustieri. Emilio Salgari

Gli ultimi flibustieri - Emilio Salgari


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faccenda, – rispose il frate. – Le stregonerie non sono tollerate.

      – Se i reverendi padri vogliono seguirmi, andiamo pure a dare la caccia ai fantasmi, – disse il guascone, prendendo un lume e mettendosi dinanzi al sagrestano-ranocchio che era piú bianco d’un cencio di bucato. Le sei barbe grigie scesero attraverso l’ampia scala, una scala quasi da palazzo, e giunsero ben presto in cantina, dove cominciarono subito a borbottare certe preci ed a trinciare una infinità di segni della croce.

      Il guascone fingeva di borbottare anche lui qualcosa che non si capiva, e di quando in quando s’appoggiava contro il sagrestano-ranocchio, manifestando un grande spavento.

      Quando le preghiere furono finite, il frate piú anziano cominciò a benedire le botti e le pareti per rimandare all’inferno spettri e satanelli.

      Passando dinanzi alla grossa botte dove stava rinchiuso il disgraziato Pfiffero, si arrestò titubante.

      – Che cos’è questo rumore che si ode lí dentro? – chiese, rivolgendosi al guascone.

      – È vino nuovo che bolle, reverendo, – rispose don Barrejo, con grande serietà.

      – Ne siete ben certo?

      – Diamine!… Ce l’ho messo dentro tre giorni fa.

      – Gorgoglia in un modo curioso.

      – La cantina non è troppo fresca, quantunque sia molto profonda.

      – Dove sono comparsi i fantasmi?

      – Precisamente qui.

      – Quanti erano?

      – Due, reverendo.

      – E il passaggio che conduce all’ossario del cimitero?

      – Quale passaggio?

      – L’ufficiale delle guardie mi ha detto che qui vi era una galleria.

      – Sí, una volta, reverendo, poi è venuta una scossa di terremoto ed ha fatto crollare le vôlte.

      Le sei barbe grigie fecero il giro della cantina, continuando a benedire, mentre don Barrejo cercava fra la botti un certo caratello che non sarebbe dispiaciuto nemmeno ai reverendi.

      – Padri, – disse, quando stavano per risalire la scala, ormai persuasi di aver relegati per sempre tutti gli spiriti maligni all’inferno. – Io non ho dell’olio da offrirvi per le vostre lampade, perché sono un povero diavolo. Accettate però pel vostro disturbo questo caratello di vecchio Alicante.

      – Grazie, buon figliuolo: servirà pei feriti che ricoveriamo al convento.

      Don Barrejo lo mise sulle spalle del sagrestano-ranocchio e la comitiva ritornò nella taverna e quindi uscí nella via.

      – Dieci giornate come questa, – disse il guascone, quando i frati se ne furono andati e la porta fu chiusa, – ed a te, mio povero don Barrejo, non rimarrà altra alternativa che di chiudere bottega per mancanza di vino.

      “Che buco hanno fatto quest’oggi fra Mendoza, Buttafuoco, il Pfiffero, la ronda e poi i frati per sopra mercato.

      “Al diavolo anche i fantasmi!

      “Panchita!…”

      Una voce che veniva dal di sopra rispose:

      – Vieni a dormire, Pepito.

      – Lascia che faccia i conti della giornata, – rispose il guascone. – Abbiamo lavorato molto quest’oggi. L’affare dell’eredità del Gran Cacico del Darien mi ricompenserà però largamente delle perdite, – aggiunse poi a mezza voce.

      Stava per aprire un vecchio registro, tutto sgorbio e macchie d’inchiostro, dove nessuno avrebbe potuto certamente raccapezzarsi, fuorché il proprietario della taverna d’El Moro e sua moglie, quando si udí picchiare alla porta.

      – Tonnerre!… – esclamò il guascone, il quale cominciava a perdere le staffe. – È proprio scritto che questa notte io non debba né fare i miei conti, né andare a dormire? Al diavolo tutte le ronde di Panama.

      Si alzò, scaraventando lontano lo sgabello su cui stava seduto, prese per precauzione la sua draghinassa ed aprí la porta.

      Due uomini d’aspetto poco rassicurante, con ampi ferraiuoli e cappellacci immensi, tentarono di entrare, mentre uno di loro chiedeva:

      – È vero che la vostra taverna è piena di spettri? Noi non abbiamo paura nemmeno del diavolo e vi offriamo di tenervi compagnia fino a domani mattina.

      – Chi ve lo ha detto? – gridò don Barrejo, mostrando la draghinassa.

      – Abbiamo veduto i frati uscire poco fa dalla vostra taverna.

      – Ebbene, giacché non avete paura nemmeno del diavolo, andate a tenere compagnia a lui. Io non ho bisogno di nessuno.

      E chiuse senz’altro la porta sul viso dei due sconosciuti, accompagnando il colpo con un tonnerre dei piú formidabili che fossero usciti mai dalle sue labbra.

      – Questa è una notte d’inferno, – borbottò il brav’uomo. – O questi spettri faranno la fortuna della mia taverna o rovineranno completamente le mie tasche e porteranno via anche la lunga catena d’oro di Panchita.

      “Birbante di Mendoza!… Quando c’entra lui, porta ovunque la rivoluzione. È vero che anche don Barrejo, che è qui che mi ascolta, quando ci si mette fa le sue.”

      Aveva appena terminato i conti della giornata, constatando un’uscita di trenta bottiglie non pagate, senza contare il caratello regalato ai frati, quando fu di nuovo picchiato alla porta.

      – Cane d’un lume!… – esclamò il guascone, furioso. – È questo che mi tradisce.

      Riprese la draghinassa e per la seconda volta aprí.

      Si trovò di fronte a tre o quattro altri individui di dubbia cera, i quali gli chiesero tutti ad una voce:

      – È qui che ci sono gli spettri? Siamo venuti per spazzarli via.

      – Basta la mia scopa!… – gridò don Barrejo. – Tonnerre!… Lasciate che i galantuomini, che hanno lavorato quindici ore su ventiquattro, si prendano un po’ di riposo. Filate!…

      Vedendo il guascone a roteare minacciosamente la draghinassa, anche quegli ultimi nottambuli se la diedero a gambe sotto la pioggia sempre scrosciante.

      – Che vengano a prendermi a gabbo? – si chiese don Barrejo, il quale perdeva la pazienza. – Il primo che viene a seccarmi ancora, lo afferro per la gola e lo mando a tenere compagnia a compare Pfiffero, parola di guascone.

      “La notte è perduta, è quindi inutile guastare il sonno della mia dolcissima metà.”

      Scosse tre o quattro bottiglie ed avendone trovata una semipiena la svuotò in due colpi, poi si allungò su due sedie, appoggiandosi contro il tavolino.

      Il suo sonno non durò molto, poiché fu interrotto ben presto dallo squillare delle duecento campane che contava allora Panama e che tutte insieme formavano un tale baccano da scuotere anche i morti.

      Quel breve sonno però lo aveva rimesso completamente in gambe, non avendo ancora dimenticato le sue vecchie abitudini d’avventuriero.

      Aveva appena data la voce a Panchita perché si alzasse, quando udí bussare discretamente alla porta.

      – Che sia un altro che viene a vedere i fantasmi? – si chiese. – Tonnerre!… Gli romperò la testa con un colpo di bottiglia.

      Brontolando e bestemmiando, andò ad aprire e si ritrovò davanti un ragazzo indiano di dodici o quattordici anni, d’aspetto furbesco ed intelligentissimo, con occhi di fuoco e la pelle dai riflessi ramigni.

      – Che cosa vuoi tu, furfante? – Gli chiese don Barrejo.

      – Prendete, da parte di Buttafuoco, – rispose il ragazzo, consegnandogli il biglietto piegato in quattro.

      Poi se ne fuggí, piú lesto d’un cervo, prima che il guascone avesse pensato a trattenerlo, scomparendo ben


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