Gli ultimi flibustieri. Emilio Salgari

Gli ultimi flibustieri - Emilio Salgari


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sgorbi? Quel caro Buttafuoco ama troppo la scrittura.

      “Bah!… Una mania anche quella!…”

      Allargò, come aveva l’abitudine, le sue lunghe e magrissime gambe, simili ad un immenso compasso, si mise una mano sul fianco destro e colla sinistra si cacciò sotto gli occhi la carta che era coperta di lettere grosse come ditali, poiché anche i gentiluomini allora si occupavano di frequentare piú le sale di scherma che la scuola.

      Il guascone non era della forza del gentiluomo francese, quantunque anche lui avesse prese delle lezioni dal curato del suo villaggio, sicché dopo una mezza dozzina di tonnerre, pronunciati su tutti i tuoni davvero, dovette rinunciare e darsi del triplice asino.

      Fortunatamente la bella taverniera era già scesa, e siccome ne sapeva molto piú di lui, non le riuscí difficile decifrare quegli sgorbi.

      Quali terribili notizie conteneva quel bigliettino!… La contessina di Ventimiglia scomparsa e probabilmente prigioniera del marchese di Montelimar; Buttafuoco e Mendoza assaliti e con un altro prigioniero da unire al Pfiffero; la necessità quindi di mettere insieme i due uomini dentro la botte e di trasportarli altrove, per evitare delle sgradite sorprese da parte della polizia.

      – In conclusione, che cosa vuole Buttafuoco? – chiese don Barrejo, il quale si grattava furiosamente la testa.

      – Che questa sera tu gli conduca il fiammingo alla posada, senza levarlo dalla botte.

      – Diventano pazzi questi avventurieri scatenati? Il rapimento della contessina deve aver fatto perdere loro la testa.

      – Io credo il contrario, invece, Pepito mio, – disse Panchita.

      – Ti sbarazzano di quell’uomo che per noi costituisce un continuo pericolo.

      “Pensa che cosa succederebbe se le guardie lo scoprissero dentro la botte.”

      – Tu ragioni meglio del curato del mio villaggio, che si ostinava a cacciarmi in testa, come tanti chiodi, degli a e dei b. Condurre via quella botte non sarà cosa facile.

      “È bensí vero che non sarò cosí stupido da farla viaggiare in pieno giorno.

      “Tra là là, ci sono!…”

      – A che cosa?

      – Il problema è sciolto, – disse il guascone, prendendo una bottiglia d’aguardiente e riempiendosi un bicchierino. – Ad ogni passo io scopro una nuova America.

      – E con tutte queste scoperte io non vedo altro che te che ti attacchi alla bottiglia dell’aguardiente, – disse la bella castigliana.

      – Questa sera, prima del tramonto, andrai a chiamare tuo fratello. Egli è forte e grosso come un toro e fra noi due la botte verrà portata fuori dalla cantina.

      “Raccomandagli di noleggiare un carretto qualunque per caricare il Pfiffero e anche l’altro che si trova nella posada.

      “Come vedi, non ci voleva molto studio a risolvere la questione.

      Quella invece che farà sudare sarà l’altra: la scomparsa della contessina di Ventimiglia.”

      – Vuoi occuparti anche di quella? – chiese la castigliana, con inquietudine.

      – Quand’è che i guasconi hanno dimenticato gli amici? – chiese don Barrejo, con voce grave, mettendosi le mani sui fianchi ed allargando piú che poté le sue gambe. – Ohé, Panchita, vi permettete delle osservazioni fuori di luogo.

      – Io penso alla tua vita, Pepito, che può correre, da un momento all’altro, qualche grave pericolo.

      – I guasconi, quando hanno una draghinassa al fianco, sanno difendersi contro tutti gli spadaccini di questo e dell’altro mondo. Ricordatelo Panchita.

      Tracannò un altro bicchierino di aguardiente e andò a sedersi presso la porta, osservando le persone che passavano.

      La storia degli spettri, colla relativa visita dei frati, doveva essersi sparsa fra gli a abitanti del quartiere, poiché presso gli angoli delle case si raggruppavano delle vecchie comari le quali si additavano, dopo il segno della croce, la taverna d’El Moro.

      Don Barrejo fingeva di non accorgersi di nulla e poi si occupava piú di certi tipi, che non aveva mai veduti bazzicare la sua osteria e che passavano e ripassavano, coi feltri inclinati insolentemente su un orecchio e le spade bene in vista.

      – Se quei corvi credono di farmi paura, s’ingannano, – borbottò il guascone. – Devono essere tutte spie del marchese di Montelimar, perciò niente vino per loro.

      E mantenne la parola. A piú riprese, alcuni di quegli individui sospetti, entrarono nella taverna chiedendo da bere, però don Barrejo, colla scusa che le botti erano state benedette troppo di recente e che i fantasmi potevano ritornare, un po’ scherzando e un po’ colle brusche li fece sloggiare al piú presto.

      Quel giorno la taverna d’El Moro non vendette un bicchiere di vino, poiché la cera burbera del proprietario aveva fatto scappare tutti.

      Verso sera, mentre l’uragano si rinnovava colla solita violenza, essendo Panama una città soggetta alle grandi siccità e anche agli interminabili acquazzoni, Panchita lasciava la taverna, mentre il marito chiudeva con fracasso le porte, per avvertire i vicini che non voleva essere disturbato.

      Da un armadio aveva tratta una corazza irrugginita ed un elmetto e si era messo a strofinare vigorosamente or l’una ed or l’altro, continuando a borbottare come era sua abitudine.

      Quando le credette abbastanza lucide, prese un lume ed una bottiglia di aguardiente, che aveva già prima sturata, e scese nella cantina, per vedere in quali condizioni si trovava il suo Pfiffero.

      Scalò la grossa botte, alzò il coperchio e si lasciò cadere entro l’ampio recipiente, badando di non calpestare il povero fiammingo, il quale stava rannicchiato in fondo.

      – Ohé, mastro Arnoldo!… – chiamò don Barrejo, scuotendolo vigorosamente. – A che punto siamo della vostra digestione?

      Dapprima non ottenne per risposta che un rauco brontolio, poi le labbra del disgraziato, si agitarono come se volessero pronunciare qualche parola.

      – Dite su, mastro Arnoldo, – disse il guascone, mettendogli la lampada sotto il viso. – Avete sete?

      – Si… da… pere…

      – Sempre ai vostri ordini, mastro Arnoldo.

      Gl’introdusse in bocca il collo della bottiglia e lo tenne fermo finché gli parve conveniente.

      Guardò la bottiglia attraverso la luce: era mezza vuota.

      – Eccellente, è vero, mastro Arnoldo? – chiese. – Scommetto che non ne avete bevuto mai di simile da quando siete nato.

      Il fiammingo non rispose. Fulminato da una seconda sbornia, si era raggomitolato su sé stesso, ricominciando a russare.

      – Lasciamolo riposare tranquillo, – borbottò don Barrejo. – Sarebbe un’imprudenza se gli facessi inghiottire tutto il contenuto della bottiglia.

      Risalí rimise a posto il coperchio, badando che non combaciasse, e tornò nella taverna per indossare la corazza e mettersi in testa l’elmetto.

      – Eccomi tornato armigero, – disse, con sospiro. – Ah!… Quelli erano bei tempi!… Le draghinasse non avevano il tempo di arrugginirsi.

      “Chissà che non ritornino.”

      Un quarto d’ora dopo, Panchita, tutta inzuppata d’acqua, era di ritorno, accompagnata da un bell’uomo sui trent’anni, bruno come un indiano, con due baffoni neri che gli davano un aspetto marziale. Don Barrejo non aveva esagerato quando aveva detto a Panchita che il di lei fratello era grosso e forte come un toro, poiché infatti il nuovo venuto doveva possedere certi muscoli, da rompere a pugni le costole anche ad un bue.

      – Hai condotto il carretto Rios? – Gli chiese don Barrejo.

      – Sì, cognato, – rispose il bell’uomo.

      – Sai


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