Gli ultimi flibustieri. Emilio Salgari

Gli ultimi flibustieri - Emilio Salgari


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di non farti prendere.

      – Colle mie gambe!… Sfido tutte quelle degli armigeri del marchese. Lasciate fare a me e vi garantisco che prima di questa sera la contessina avrà nostre notizie e che noi avremo anche le sua.

      “Signor Buttafuoco, volete prepararmi qualche bigliettino? Ho una matita a vostra disposizione.”

      – Ed io non manco di carta, – rispose il bucaniere. – Mi aspetto però da voi un vero colpo di testa, degno di un guascone.

      – Quando ci va di mezzo l’onore della grande Guascogna si possono affrontare mille pericoli e compiere mille miracoli.

      – Noi intanto ci occuperemo per noleggiare qualche caravella per raggiungere i filibustieri di Taroga. Tu, Wandoe, conosci molti marinai.

      – L’affare non sarà difficile, – rispose il padrone della posada, – non so però come farete a lasciare il porto. Gli spagnuoli sono diventati eccessivamente curiosi, dopo che Raveneau de Lussan li guarda dal Pacifico, e nessun veliero può uscire senza uno speciale permesso od un’alta raccomandazione.

      – Tonnerre!… – esclamò il guascone. – Non abbiamo forse con noi il Pfiffero ed il figlio del grande di Spagna? Avranno delle carte, suppongo, che accorderanno loro ampia libertà di agire in nome del marchese di Montelimar.

      “Assoldiamo quelle due canaglie promettendo loro una parte dell’eredità del Grande Cacico del Darien. Piú tardi penseremo noi a gettarli in bocca ai pesci-cani del Pacifico.”

      – Decisamente questo guascone è diventato un antropofago, – disse Mendoza. – Ed io che avevo creduto che dopo il suo matrimonio fosse diventato uno zuccherino candito!

      – Approvate le mie idee? – chiese don Barrejo, il quale non aveva fatto attenzione alle parole del basco.

      – Pienamente, – rispose Buttafuoco, il quale aveva scritto rapidamente alcune righe su un pezzo di carta strappato da un libriccino. – Contiamo di lasciare Panama questa sera: pensateci voi a cavarvela come meglio potrete.

      – Ed io vi prometto di darvi una prova di quanto sanno fare i guasconi, quando vogliono, – rispose don Barrejo. – Rios, attaccati al carretto e riconduci la botte alla taverna.

      “Ora è giorno e non avremo piú da fare con degli ubriachi insolenti. Amici, a questa sera, prima del tramonto.”

      Si gettò sopra la corazza il mantellone di panno oscuro, si fissò bene al fianco la draghinassa, e lasciò la catapecchia, insieme al robusto castigliano, il quale non si era dimenticato di armarsi del suo formidabile randello. Il meraviglioso porto di Panama, il piú bello ed il piú ampio che gli spagnuoli possedessero nell’America centrale, e centro d’un attivissimo commercio col Messico, col Perú e col Chilí, i quali inviavano al Presidente dell’Udienza Reale i loro galeoni carichi di verghe d’oro, era tutto in movimento.

      I velieri, sempre numerosissimi, non ostante la vicinanza dei filibustieri, spiegavano le loro ampie vele per asciugarle al sole o per prendere il largo, mentre sulle comode calate, turbe di meticci e d’indiani s’affaccendavano intorno a vere montagne di merci pronte ad essere imbarcate pei porti del Perú.

      Sull’avamporto, due grosse fregate, armate di una quarantina di cannoni ciascuna, bordeggiavano, facendo di quando in quando, delle punte al largo, per prevenire una qualche non improbabile sorpresa da parte dei filibustieri annidati solidamente a Taroga, ma sempre pronti a piombare sui velieri isolati ed espugnarli colla loro solita bravura.

      La filibusteria, che tanti mali aveva recato agli spagnuoli, si spengeva lentamente, però i suoi ultimi campioni non valevano meno di Montbars, di Pietro l’Olandese, di terribile fama, di Wan Horn, di Laurent e di Morgan, che per circa un secolo avevano fatto tremare e piangere l’orgogliosa Spagna.

      Rios ed il guascone, dopo essersi aperto un varco fra la folla dei mercanti e degli armatori che affluiva verso il porto, risalirono verso il centro della città, dove sorgevano i piú grandiosi palazzi dei signori di Panama, fra cui quello del marchese di Montelimar, che don Barrejo conosceva benissimo.

      Giunti a questo punto si separarono.

      – Dirai a tua sorella che questa sera ci rivedremo e che si prepari per un po’ di tempo a non vedermi piú, – aveva detto il guascone. – Bisogna curarli i propri affari, tonnerre!…

      – Va bene – aveva risposto semplicemente il robusto castigliano, e se n’era andato col suo carretto e colla sua botte monumentale, la quale non mancava, per la sua mole, di attirare gli sguardi di tutti i passanti.

      Don Barrejo percorse diverse vie, finché sbucò su una vasta piazza, fiancheggiata da bellissimi palazzi.

      Da tutte le porte uscivano, in gran numero, cuochi, domestici, garzoni, e delle belle meticce per fare le spese mattutine.

      Don Barrejo si rialzò i baffi un po’ grigiastri, si mise il feltro piumato sulle ventiquattro, aprí il mantellone per mettere ben in vista la sua corazza, diventata press’a poco lucente, e l’impugnatura della sua formidabile draghinassa, e si mise a passeggiare, con sussiego, dinanzi ad un palazzone sul cui frontone campeggiava lo stemma dei marchesi di Montelimar, formato da un monte verde come un ramarro, sorgente da un mare bluastro su fondo dorato.

      – Aspettiamo qualche gallinella, – disse. – Tonnerre!… Sono ancora un bell’uomo!… Se ho guadagnato il cuore della piú splendida taverniera di Panama, potrò fare ancora una breccia nel cuore di qualche cuoca o di qualche servetta.

      Passeggiava da un quarto d’ora dinanzi al palazzo, sbirciando un po’ insolentemente gli alabardieri che vegliavano dinanzi alla grandiosa gradinata di marmo, quando vide uscire, agile come un uccello, una bellissima mulatta, dagli occhi ardenti ed i capelli crespi e nerissimi, portando infilato in un braccio nudo e rotondo un grosso paniere.

      – Ecco l’affar mio, – disse il guascone. – Ora pesco il mio pesciolino.

      Capitolo VII. SULL’OCEANO PACIFICO

      Don Barrejo ai suoi tempi, malgrado le sue lunghissime gambe, era stato, nella sua qualità di armigero, un gran conquistatore di donne, quindi non disperava affatto di condurre a buon porto i suoi disegni.

      Adocchiata la bella mulatta, allungò il passo ed in pochi momenti le fu alle spalle, dicendole:

      – Eh!… Eh!… Dove correte, mia bella?

      La mulatta si voltò, guardò il guascone, poi, come affascinata dall’aria marziale di lui o dallo splendore della corazza, gli rispose:

      – Al mercato, caballero.

      – Chiamatemi conte, perché mio padre è un grande di Spagna.

      – Sí, signor conte.

      – Sei ai servigi del marchese di Montelimar? – le chiese don Barrejo, mettendosele a fianco.

      – Sí, signor conte.

      – Posso offrirti qualche cosa? La mattina è fresca, e un buon bicchiere di mezcal non farà male né a me, né a te.

      – Oh!… Signor conte!… – esclamò la mulatta.

      – Insieme ad un gruzzolo di piastre luccicanti, – proseguí il furbo guascone.

      – Che cosa volete da me, signor conte? – chiese la mulatta, stupita di trovarsi a fianco d’un cosí grande gentiluomo.

      – Signor conte, – disse poi, – io non sono che una povera serva mulatta, che non ha mai avvicinato persone di cosí alto grado.

      – Ebbene sono io che ti avvicino a me, – rispose don Barrejo, posando fieramente la sinistra sull’impugnatura della draghinassa, perché gli era parso che qualche passante lo avesse guardato sorridendo ironicamente. – Pelli bianche dal sangue azzurro o pelli dorate dal sangue multicolore, per me fanno lo stesso, perché nelle mie vene non ho una goccia di sangue castigliano.

      “Come ti chiami?”

      – Carmencita.

      – Bel


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