I figli dell'aria. Emilio Salgari
– chiese Rokoff al negoziante di tè.
– Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà – rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.– Vedremo come finirà questa avventura.
Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione.
La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù.
– Questi cinesi vogliono rovinarci – disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. – Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po’ la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone!
Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell’impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi.
Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l’ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata.
– Dove ci conducono, Fedoro? – chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni.
– Vorrei saperlo anch’io.
– All’ambasciata no di certo.
– Siamo usciti dalla città.
– E ci dirigiamo?
– Verso il Pei-Ho, se non m’inganno. Ah! Mi viene un sospetto.
– E quale Fedoro?
– Che c’imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all’ambasciata russa.
– Ci sfrattano dall’impero?
– Lo suppongo, Rokoff.
– Che ci mandino via non m’importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare.
Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d’artiglieria di legno.
Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l’attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo.
Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente «fiume» e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord-est.
– Mi pare che ci conducano a Tong – disse Fedoro.
– Che cos’è?
– Una borgata sulle rive del Pei-Ho.
– Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci.
– Tale è ancora la mia opinione, Rokoff.
– Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi?
– Sì, Rokoff.
– In conclusione, trattano i prigionieri come polli.
– Né più né meno – rispose Fedoro.
– Bel sistema per far rompere le gambe.
– Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili.
– In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani!
– E lontani centinaia di miglia? – aggiunse Fedoro.
– All’inferno i cinesi!
– Vedo delinearsi all’orizzonte delle abitazioni. —
– Che sia la borgata?
– Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d’alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare.
I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all’immensa capitale.
I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l’altro dietro.
Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre.
In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine.
Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata.
– Che siamo aspettati? – chiese Rokoff.
– Non so – rispose Fedoro, il quale era diventato pallido.
Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi.
Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento.
Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell’urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche:
– Fan-kwei-weilo! Weilo!
Fedoro aveva mandato un grido d’orrore.
In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s’appoggiava ad una larga scimitarra.
Era un carnefice in attesa delle sue vittime.
I FIGLI DELL’ARIA
La benda era caduta dinanzi agli occhi dei due europei: la doppiezza e l’astuzia della razza mongola ancora una volta avevano vinto.
Le promesse e le gentilezze del magistrato, non avevano avuto che uno scopo solo: quello di addormentare gli europei, cullandoli in una fallace speranza di libertà.
Condannati a morte dai mandarini, onde evitare che potessero in qualche modo informare l’ambasciata, il miserabile magistrato li aveva indegnamente ingannati, affinché la giustizia potesse avere il suo corso senza sorprese inaspettate.
Per maggior precauzione, quantunque camuffati da cinesi, quel briccone li aveva tratti lontani dalla capitale, per impedire che nessun europeo potesse intervenire.
Se una tale esecuzione poteva suscitare dei sospetti a Pechino, a Tong non doveva trovare ostacoli.
Il colpo, abilmente preparato, come si vede era riuscito pienamente e fra pochi minuti le teste del cosacco e del russo dovevano, al pari dei deliquenti cinesi, cadere sotto un buon colpo di scimitarra, per venire poi esposte in qualche gabbia appesa su una pubblica piazza.
Rokoff, comprendendo che la sua esistenza stava per finire, era stato preso da un tale eccesso di furore, da temere che demolisse la gabbia e si scagliasse, come una belva feroce, contro la folla urlante. Il cosacco, sapendosi innocente, non voleva morire senza lotta, né invendicato.
Spezzato, con uno sforzo supremo, un bambù della gabbia, aveva allungato un braccio tra le traverse, tempestando le zucche pelate del popolaccio che si accalcava intorno al carro.
Erano legnate tremende, che facevano risuonare i crani come tam-tam e che strappavano urla di dolore ai colpiti. Fortunatamente la scorta, occupata ad aprirsi il passo, non aveva tempo d’impedirgli quella manovra pericolosa.
– Cani