I figli dell'aria. Emilio Salgari

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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tranquilla dormita, uscirono dal fuso, videro il capitano che stava esaminando attentamente le piante del tè che coprivano tutta la sommità della montagna, prolungandosi anche lungo i fianchi, fino al margine dei boschi.

      Era una splendida piantagione, tenuta con somma cura, composta di migliaia e migliaia di piante, coperte da ammassi di paglia per ripararle dal freddo notturno. Le ricerche del capitano dovevano però essere vane, perché le foglioline non erano peranco spuntate. I rami avevano appena cominciato a mettere le gemme le quali non dovevano svilupparsi che molto più tardi. Quelle piante erano tutte basse e somigliavano a cespugli, alti appena un metro od un metro e mezzo.

      – Ebbene signore, avete fatto la vostra raccolta? – chiese Fedoro, ridendo.

      – Nemmeno una foglia – rispose il capitano, facendo un gesto desolato.

      – Ve lo avevo detto che era troppo presto.

      – Eppure mi avevano assicurato che anche in questa stagione si fa raccolta.

      – Nelle provincie meridionali e non qui, signore. Nella Cina settentrionale si comincia nell’aprile, mai prima, poi si fa la seconda raccolta nel maggio, quindi nel luglio, poi in agosto che è l’ultima, ma anche quella che dà una qualità più scadente.

      – È la prima che fornisce la qualità migliore?

      – Sì, capitano, essendo allora le foglie piccole, coperte ancora da una leggera peluria, però è la meno abbondante.

      – E le foglie non subiscono qualche operazione prima di essere messe in commercio? – chiese Rokoff.

      – Anzi molte – rispose Fedoro. – Appena raccolte si espongono all’aria ed al sole per parecchie ore, entro canestri di bambù, poi si pongono entro padelle di ferro e si torrefanno leggermente, mescolandole e spremendole con forza, onde ne esca tutto il succo che contengono.

      Si mettono quindi in vassoi, lasciandovele per qualche tempo, poi una nuova torrefazione a lento fuoco che si ripete varie volte, quindi si fa la scelta.

      – E perché? – chiese il cosacco.

      – Non tutte le foglie sono uguali, quindi si creano vari tipi di tè che sono più o meno pregiati. Il verde, che ha invece una tinta un po’ azzurrognola è il migliore e si profuma con fiori d’arancio, con mo-li che sono una specie di gelsomini, con rose di tsing-moi e con kwei-hoa che assomigliano alle nostre gardenie.

      Questo tè si chiama shang-hiang ed è il più pregiato. Vi sono poi altre specie: il tè nero di Bohea, il pekoe ossia dei capelli bianchi perché le sue foglie hanno una leggera peluria; il kiai-shan, e l’yang-lin-tung, poi il ma-chu o perla di canape e finalmente il tha-chia o fiore di perla.

      – Io ho udito vantare una qualità che non avete nominato – disse il capitano.

      – Il «tè polvere da cannone» è vero?

      – Sì, signor Fedoro.

      – Che strano titolo – disse Rokoff. – Forse che somiglia alla polvere?

      – È uno dei migliori e la sua preparazione è lunga e non facile – disse Fedoro. – Per ottenerlo bisogna prima far seccare del tè nero, poi arrotolarlo colle mani e coi piedi, quindi torrefarlo in un piatto esposto ad un fuoco vivo di carbone di legna. Ciò fatto, si stende su bacili di bambù e lo si pulisce del tritume e delle code, quindi si chiude in sacchetti di tela che vengono calpestati e rotolati in tutti i sensi e per parecchie ore, da vigorosi facchini. Ridotto in granelli, si passa in setacci di varie grossezze, quindi subisce un’ultima torrefazione.

      – Con tutto ciò noi non avremo il piacere di bere né una tazza di «polvere di cannone», né di tè comune – disse il capitano. – Bah! Andremo a chiederne ai nomadi del deserto.

      Stava per tornare allo «Sparviero», quando verso il margine della foresta si udirono dei canti monotoni.

      – To’! – esclamò il capitano, arrestandosi. – Vi sono degli abitanti qui?

      – Ecco una bella occasione per rinnovare la vostra provvista di tè – disse Rokoff.

      – Quale accoglienza ci faranno? Voi che siete ancora vestiti da cinesi non avrete nulla da temere, ma io?

      – Ci armeremo ed in caso di pericolo ci ripiegheremo sullo «Sparviero» e riprenderemo il volo.

      – Macchinista, dei fucili e tieni la macchina pronta – disse il capitano. – Dopo tutto non ci mangeranno.

      Intanto i canti, sempre più monotoni, continuavano verso il bosco e si udivano delle donne gridare lamentosamente.

      Il capitano ed i suoi ospiti si armarono di fucili Mauser portati dal macchinista e attraversarono la piantagione di tè, avanzando però con prudenza.

      L’odio contro gli stranieri non doveva essersi ancora estinto, essendo troppo recente la presa della capitale da parte delle truppe europee ed americane e l’espugnazione sanguinosa di Tient-Tsin. Non bisognava quindi fidarsi troppo dei coduti figli del Celeste Impero, specialmente in una regione così lontana ormai da Pechino.

      – Pare che piangano – disse il capitano, fermandosi presso i primi pini. – Che abbiano fumato troppo oppio?

      – Si vedono – disse Rokoff, il quale si era avanzato d’alcuni passi.

      – Non sono che una ventina di persone e le donne formano la maggioranza. Non avremo quindi da temere un attacco da parte loro.

      – Che cosa fanno? – chiese Fedoro.

      – Non lo so.

      – Venite – disse il capitano.

      Dinanzi a loro si estendeva una roccia, la quale dominava un burrone coperto da pini e da grosse querce.

      Il capitano e i suoi amici si arrampicarono sulla rupe, tenendosi nascosti fra fitti cespugli di noccioli selvatici.

      In quel momento s’inoltrava nel burroncello una strana processione, la quale si dirigeva precisamente verso la roccia, dove si vedeva una buca che pareva scavata di recente.

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