I figli dell'aria. Emilio Salgari

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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basamenti di pietra che i secoli non hanno potuto ancora danneggiare.

      In certi luoghi, reputati allora pericolosi, si innalza per venti e anche venticinque piedi ed è tanto larga che potrebbero avanzarvisi sei cavalli di fronte; ed in altri invece è molto più bassa. In tutta la sua lunghezza è guardata da massicce torri di forma quadrata e da fortezze nelle quali, ai tempi delle invasioni tartare, vi potevano stare perfino un milione di combattenti. Oggidì però, che la Mongolia è sottomessa all’impero, la muraglia non offre più la compattezza d’una volta. Vasti tratti sono stati lasciati a rovinare e i posti di guardia sono rari, eccettuato nel tratto settentrionale, destinato a coprire la provincia di Pechino.

      – Non credevo che fosse ancora in così buono stato – disse il capitano, nel momento in cui lo «Sparviero» la superava, tenendosi a un’altezza di trecento metri. – Si vede che i cinesi erano maestri in fatto di costruzioni.

      – E che torri poderose – disse Rokoff, il quale guardava con viva curiosità quelle solide bastionate.

      – Ma che soldati paurosi – aggiunse Fedoro. – Vedo là alcune guardie che fuggono come se avessero le ali ai piedi. Queste non valgono i manciù di Tschang-pin.

      Un gruppo di montagne, non troppo alfe e dai fianchi boscosi, si estendeva al di là della grande muraglia.

      Il capitano le indicò al macchinista, dicendo:

      – Andremo a riposarci lassù; nessuno verrà di certo a disturbarci.

      – Prenderemo terra? – chiese Fedoro, meravigliato.

      – E perché no? – rispose il capitano. – «La notte è stata creata per dormire» dicono i cinesi, e quando il sole tramonta tutti gli uccelli interrompono i loro voli e si cercano un rifugio. Noi, che siamo i figli dello «Sparviero», faremo altrettanto, signore. Il paese d’altronde mi sembra deserto e le guardie della muraglia non oseranno venirci a cercare.

      Lo «Sparviero», aiutato dalle due eliche orizzontali, s’innalzava gradatamente, volando sopra folte boscaglie di pini, di querce e di lauri, e a profondi burroni in fondo ai quali si udivano scrosciare impetuosi torrenti.

      Giunto sulla prima vetta, che appariva piana e ingombra solamente di cespugli assai bassi, che l’oscurità non permetteva bene di discernere, descrisse un ampio giro, poi cominciò ad abbassarsi lentamente, tenendo le immense ali alzate e lasciando solamente funzionare le eliche orizzontali.

      Cinque minuti dopo il fuso si coricava dolcemente fra le piante, senza alcuna scossa.

      – Ditemi se con un aerostato si sarebbe potuto discendere in questo modo – disse il capitano.

      – No, signore – risposero a una voce Fedoro e Rokoff.

      – Ciò vuol dire, dunque, che il mio «Sparviero» è superiore a tutti i palloni più o meno dirigibili e a tutte le macchine volanti finora inventate.

      – Dobbiamo ammetterlo senza riserve – disse Rokoff, con entusiasmo.

      – Verrete con me? Mi annoiavo di essere solo o quasi.

      – Non vi lasceremo, se così vi piace.

      – Macchinista, accendi il fuoco in mezzo a questi cespugli profumati e preparaci un buon pranzo. Abbiamo ancora alcune bottiglie di brodo di coda di canguro che abbiamo preparato in Australia e che ci daranno una zuppa eccellente.

      – Del brodo che viene dall’Australia! – esclamò Fedoro.

      – Gelato a quaranta gradi sotto zero – rispose il capitano, ridendo. – Sarà squisito, ve lo assicuro, quantunque messo nella mia ghiacciaia venticinque giorni or sono. Abbiamo anche dei pasticci, della carne di montone, del bue, dei puddings e anche dello champagne, che salterà ben alto. Ah! Sapete signori dove si è adagiato il mio «Sparviero»? In mezzo a una piantagione di tè! Signor Fedoro, voi sapete di certo prepararlo. Ne faremo una buona provvista, visto che i cinesi non vogliono lasciarci avvicinare.

      Mezz’ora dopo i quattro aeronauti, seduti presso un allegro fuoco, essendo la temperatura assai fredda, cenavano con un appetito invidiabile, facendo buona accoglienza alla zuppa di coda di canguro, ad un pasticcio di gamberi preparato chissà in quale città dell’America o dell’Australia, a un cosciotto di montone e a un superbo grappolo di banane ottimamente conservate.

      Il capitano fece servire dell’eccellente vino di California, poi una bottiglia di champagne, il cui vetro era incrostato di ghiaccioli.

      – Signor Rokoff – disse il comandante, messo in buon umore da quel delizioso vino bianco. – È l’aria delle alte regioni o la mia tavola che vi mette in appetito?

      – L’una e l’altra – rispose l’ufficiale, che aveva divorato per due e che da vero cosacco faceva gli occhi dolci a una veneranda bottiglia di whisky recata dal macchinista. – Voi, signore, avete una dispensa ammirabile.

      – Che cercheremo di vuotare presto per rinnovarla con qualche cosa di meglio. Entriamo in una regione ricca di selvaggina e il mio macchinista è un cuoco famoso.

      – Siete anche cacciatore?

      – Mi vedrete presto, alla prova. Nel deserto di Gobi gli yacks selvaggi abbondano e anche le lepri sono numerose. Faremo delle belle battute.

      – Attraverseremo il deserto?

      – Tale è la mia intenzione.

      – E poi? – chiese Fedoro.

      – Il Tibet mi tenta colle sue montagne spaventevoli, coi suoi altipiani immensi, coi suoi lama e il suo Buddha vivente. Tutto però dipende da certe circostanze.

      – E quali, se è lecito conoscerle?

      Il capitano, invece di rispondere, caricò flemmaticamente la sua pipa, l’accese, poi cambiando bruscamente tono, disse:

      – Signor Fedoro, voi che dovete aver viaggiato molto pei vostri commerci, siete mai stato a Kiakta?

      – No, signore – rispose il russo.

      – Meglio così – mormorò il capitano.

      – Perché dite questo?

      – Ah! Voi conoscete molto bene la preparazione del tè?

      – Ma… – disse Fedoro, sorpreso da quel continuo cambiamento di discorso.

      – Come negoziante…

      – Questo è vero.

      – Ne troveremo da raccogliere in questa piantagione?

      – Uhm! Ne dubito, capitano. La stagione è ancora troppo fredda.

      – Mi rincrescerebbe, perché la mia provvista è finita ed i cinesi non vogliono saperne di avvicinarsi a noi.

      – In tutte le case se ne trova qui – disse Rokoff. – Mi hanno detto che il cinese rinuncia piuttosto al riso anziché al tè.

      – E che cosa volete concludere?

      – Che la prima fattoria che troveremo la metteremo a sacco – rispose Rokoff. – Da noi si fa così, quando i soldati mancano del necessario.

      – È vero – disse il capitano, sorridendo. – Mi dimenticavo che voi siete cosacco. Signori, è tardi e le nostre cabine hanno dei buoni letti.

      – Andremo a dormire a bordo? – chiese Fedoro.

      – Ah! Voi non avete ancora veduto l’interno della mia aeronave. Macchinista, una lampada.

      – E vi fidate a dormire senza sentinelle?

      – Chi volete che di notte vada a passeggiare sulle montagne? Andiamo. Prese la lampada che il macchinista aveva acceso e condusse i suoi ospiti a bordo, facendoli scendere pel piccolo boccaporto situato dinanzi alla macchina. L’interno dell’immenso fuso di metallo era disposto con cura estrema e anche con molto lusso.

      Vi era un bellissimo salotto lungo quattro metri e largo quanto l’intera aeronave, due gabinetti da toletta, quattro cabine con soffici letti e un salottino da lavoro ingombro di carte geografiche e di strumenti di varie specie.

      Le


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