I figli dell'aria. Emilio Salgari

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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sono costoro? – chiese Fedoro, il quale ascoltava attentamente il capitano.

      – È qui che vi aspettavo per dimostrarvi che la questione della navigazione aerea, avrebbe potuto essere stata risolta da trenta e più anni. Nel 1868, all’esposizione del classico Palazzo di cristallo di Londra, fra i vari palloni più o meno dirigibili, venivano presentate due macchine volanti: una ideata da Spencer, l’altra da Kaufmann. Salvo alcune modificazioni da me introdotte, rassomigliavano nelle forme al mio «Sparviero». Provate su corde tese, lunghe quattrocento metri, e trattenute da pulegge scorrenti, avevano dato risultati stupefacenti. Che fossero perfette, io non lo credo, ma se lo Spencer e Kaufmann avessero proseguito i loro studi, io sono convinto che a quest’ora gli uomini volerebbero per l’aria gareggiando cogli uccelli. Che cosa ho fatto io? Ho modificato le loro macchine, scartando però i loro motori a carbone, troppo pesanti e poco maneggiabili. Al ferro ho surrogato l’alluminio, molto più leggero ed egualmente resistente; al carbone… una forza ben più poderosa, poco costosa, ieri ancora ignota e che domani metterà in azione locomotive, corazzate, telai, automobili e che risolverà tutti i problemi della dinamica. Questa forza me l’ha data l’aria liquida.

      – L’aria liquida! – esclamarono Rokoff e Fedoro.

      – Quando Tripler pel primo riuscì ad ottenerla, non si immaginava certo di aver scoperta una forza che porterà la rivoluzione nel mondo. Solamente molto più tardi doveva accorgersi dell’importanza straordinaria della sua scoperta. Pensate che l’aria liquida ha circa cento volte il potere espansivo del vapore e che essa comincia a produrre la sua forza nel medesimo istante in cui è esposta all’aria esterna. Per ottenere il vapore è necessario che l’acqua raggiunga una temperatura di 212° Fahrenheit, ossia che se l’acqua entra nelle caldaie a 50° di calore, se ne devono immettere in essa altri 162° prima che possa fornire una libbra di pressione. L’aria liquida invece ne dà venti. Valendomi dunque degli studi fatti dal Tripler e da altri scienziati, e specialmente dall’Estergren, che ha già applicato l’aria liquida a molti meravigliosi congegni, ho costruito un motore d’una solidità a tutta prova, d’una leggerezza unica, il quale mi fornisce a esuberanza la forza necessaria per far muovere le ali del mio «Sparviero» e le eliche. Come vedete, una cosa semplicissima. Un’altra macchina, costruita nelle officine dell’Estergren, mi fornisce l’aria necessaria con una spesa modicissima ed in tale quantità da non saper che cosa farne, perché in una sola ora me ne procura tanta da bastarmi per una settimana. Ma vi è di più. Fa troppo caldo? Metto in azione il mio ventilatore e ottengo in pochi istanti una temperatura da Siberia. Ho dei viveri da conservare? Li metto nelle celle refrigeranti del mio fuso e li gelo ed ecco perché posso farvi assaggiare delle trote pescate due mesi or sono nel San Lorenzo o dei pasticci acquistati a San Francisco o della frutta raccolta nelle isole dell’Oceano Pacifico. Voglio sparare il cannoncino che tengo là dietro la macchina? È l’aria liquida che me ne dà la forza, senza ricorrere alla polvere. Voglio far saltare mezza città? Non faccio altro che immergere un pezzo di lana nella mia aria liquida ed ecco che infiammandosi esplode con tutta la terribile violenza del cotone fulminante. A suo tempo, se le circostanze lo esigeranno, ve ne darò la prova.

      – Ma da dove venite voi? Chi siete? – domandò Rokoff, che lo guardava quasi con terrore.

      – Da dove vengo? Dall’Oceano Pacifico, per ora. Chi sono io? Il capitano dello «Sparviero». Venite: ecco delle cose interessanti da vedere. Le tombe dei Ming! Un’altra meraviglia che vale veramente la pena di guardare con attenzione.

      Quello strano personaggio si era vivamente alzato dirigendosi verso la prora, dove la grande elica che serviva di rimorchio e fors’anche di direzione, turbinava velocemente.

      Rokoff e Fedoro, che non si erano ancora rimessi dal loro stupore, stettero un momento seduti, guardandosi l’un l’altro, poi seguirono il capitano senza parlare.

      Lo «Sparviero» si dirigeva verso una collina verdeggiante, sulla quale si vedevano biancheggiare delle strane costruzioni.

      Sotto, la pianura s’alzava gradatamente, coltivata a piante di gelso e di cotone, intersecata da torrentelli che parevano nastri d’argento e cosparsa di capanne di fango secco e di paglia.

      Dei contadini di quando in quando apparivano fra i solchi e dopo un momento di stupore, fuggivano urlando come ossessi, alla vista della macchina volante.

      – Sapete come si chiama quella collina? – chiese il capitano ai suoi ospiti?

      – No, signore – rispose Fedoro. – Non sono mai andato oltre Pechino. Dopo la distruzione di Taku, la presa di Tient-tsin e l’entrata delle truppe europee nella capitale, l’uomo bianco non osa più inoltrarsi nelle provincie interne della Cina.

      – È vero – disse il capitano. – Gli europei e gli americani, colla loro grande spedizione, credevano di aprire per sempre le barriere cinesi ed invece le hanno chiuse più di prima. I boxer vivono ancora dovunque e la tremenda lezione non è bastata a calmarli.

      – E quella collina? – chiese Rokoff.

      – È la Scisan-ling, ossia dalle tredici fosse – rispose il capitano. – Là vi sono le famose tombe della dinastia dei Ming.

      – E andiamo a vederle?

      – Vi passeremo sopra.

      Si appoggiò al bordo e si rimise a fumare, tenendo gli sguardi fissi sulla collina che pareva si precipitasse incontro allo «Sparviero» con velocità straordinaria.

      Intanto nelle vallette, all’ombra di gruppi di pini e di ginepri, cominciavano ad apparire numerose tombe, appartenenti probabilmente a ricchi personaggi od a principi. Quasi tutte avevano la forma di tartarughe gigantesche, portanti sul clipeo delle tavole di marmo piene d’iscrizioni con ai lati colossali leoni e chimere di bronzo o di pietra bigia.

      Lo «Sparviero», rallentata la corsa, dopo essersi innalzato di altri trecento metri onde poter dominare tutta intera la collina, ridiscese imboccando una stretta valletta che s’inoltrava fra profondi burroni, e si arrestò al disopra d’un vasto spiazzo dove si vedevano delle superbe costruzioni.

      Era il parco sepolcrale dei Ming, uno dei più splendidi che si vedono nel circondario di Pechino.

      Esso si trova a circa quaranta chilometri dalla capitale, in un luogo solitario della catena dei Tiencia, fra gruppi di pini che formano dei bellissimi viali ombrosi e di querce grossissime.

      Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri.

      Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre.

      Lo «Sparviero» descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia.

      Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo.

      Il capitano, d’altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista.

      Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti.

      – Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? – chiese Rokoff. – A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d’aver sognato.

      – Anch’io mi domando ancora se sono vivo o morto – rispose il russo. – Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo.

      – Infatti, l’avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l’Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà.

      – Mostreremo loro lo «Sparviero».

      – Se


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