I figli dell'aria. Emilio Salgari
gran dotto di certo.
– E anche un originale, Fedoro.
– E non vuole dirci dove ci trasporterà ora.
– Attraverso l’Asia.
– Un, viaggio meraviglioso – disse il russo.
– Che non mi rincresce affatto – aggiunse Rokoff.
– E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli.
– Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia.
– Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra!
– Non credo che ciò possa accadere – disse Rokoff. – Questo treno aereo è d’una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d’uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo «Sparviero» abbia deviato ancora.
– Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo – disse Fedoro.
– Una città?
– Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d’acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho.
– Allora ci dirigiamo al nord.
– E verso la grande muraglia, ne sono certo – rispose Fedoro. —
– L’Europa non si trova già al nord.
– Lo «Sparviero» piegherà poi verso l’ovest.
– No, signori – disse una voce dietro di loro. – Non ora; più tardi, molto tardi.
Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi.
Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi.
Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell’anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare.
– Non piegheremo verso l’ovest? – chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità.
– Non per ora – ripeté il macchinista in cattivo russo. – Continueremo dunque la corsa verso il nord.
– Sì, signore.
– Allora andremo in Siberia.
– Non lo so – rispose il giovane, quasi si fosse pentito d’aver detto troppo. – È il capitano che comanda.
– Eppure ci aveva detto di condurci in Europa – insistette Rokoff.
– Se lo ha detto, manterrà la parola.
– È molto tempo che viaggiate? – chiese Fedoro.
– Molto e poco.
– Vale a dire?
– Che non lo so.
– Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano?
– Può essere.
– Non sapremo mai nulla da costui – disse Rokoff in francese a Fedoro.
– Non devo parlare, tale è l’ordine – disse il macchinista nell’egual lingua e sorridendo.
– Ah! Voi parlate anche il francese! – esclamò il cosacco, confuso.
– Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana.
– Faremo provare una gran paura ai cinesi.
– To’! Che cos’è quell’immenso recinto brulicante d’animali? – chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l’ovest.
– Una delle riserve dell’imperatore – rispose Fedoro. – Ne ha parecchie nella provincia di Pechino.
– Vi sono migliaia di cavalli.
– E tutti di proprietà imperiale.
– E che cosa ne fa l’Imperatore?
– Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero.
– Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi.
– Sì, Rokoff.
– Vedo anche dei buoi.
– Ne possiede dodicimila.
– E delle pecore.
– Si dice che ne abbia duecentoquarantamila.
– Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s’innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana.
– Fedele copia di quella di Pechino – disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. – Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo.
– Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa.
– La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla.
– Ko-hi! – esclamò Rokoff, guardando il capitano. – Chi era?
– Una delle più belle fanciulle dell’impero.
– E che cosa c’entra colla famosa campana?
– Signor Fedoro – disse il capitano, volgendosi verso il russo. – Non conoscete la storia di questa campana?
– No, signore.
Il capitano s’appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d’occhio, poi disse, quasi bruscamente:
– Narrasi che l’imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l’eguale nel mondo. L’impresa era così ardua, che per due volte l’immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L’imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d’una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell’astrologo e temendo l’ira dell’imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l’orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall’immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: «Per mio padre!» Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell’uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l’astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!
LA GRANDE MURAGLIA
Tschang-pin,