I Vicere. Federico De Roberto
correva il motto: «meglio porco che soldato», così neppure la nobiltà si dava alla milizia. Ma don Eugenio voleva anch’egli esser libero e guadagnarsi un posto nel mondo. Rimasto al Noviziato di San Nicola per educazione fin quasi a diciott’anni, se ne andò a Napoli all’uscir dal monastero, e fu ascritto alla nobile compagnia delle Reali Guardie del Corpo, certo di salir subito ai primi gradi. Dopo dieci anni era appena sotto-brigadiere. Infatuato come tutti gli Uzeda della sua nobiltà, aveva guardato d’alto in basso i compagni ed anche un poco i superiori, vantando, oltre i sublimi natali, sterminate ricchezze; invece, al momento di mostrarle coi fatti, i giovani signori napolitani mettevano fuori i quattrini, mentre il vanaglorioso cadetto siciliano si ritraeva o, peggio, faceva debiti che poi non pagava. Trattato da millantatore, fu posto quasi al bando dai compagni; e del resto egli stesso, riconoscendo di non aver raggiunto lo scopo, quantunque ai parenti scrivesse che il magro successo era da attribuire all’invidia ed all’ingiustizia, risolse un bel giorno di dar le dimissioni. Restò tuttavia a Napoli, donde annunziava che le case più ricche e nobili gli erano aperte come la sua propria, e che il duca Tale ed il principe Talaltro gli volevano dare in moglie le figliuole; nessuno di quei matrimoni, continuamente spacciati come certissimi, si combinava mai. Frattanto, abbruciato di quattrini, egli aveva chiesto un impiego a Corte; e nonostante i precedenti poco promettenti, pure, per ragioni politiche, premendo ai Borboni di tenersi amiche le grandi famiglie siciliane, egli fu nominato Gentiluomo di Camera, con esercizio. Nel 1852, inaspettato ospite, tornò a casa. Diceva d’esser passato dal servizio attivo all’onorario perché il clima di Napoli non gli conferiva; una certa voce sorda parlò invece di cose poco pulite combinate con un fornitore di Casa reale… Da Napoli, l’ex Guardia del Corpo e Gentiluomo di Camera tornò con una nuova vocazione: l’archeologia, la numismatica e l’arti belle. Portò con sé una quantità di rottami provenienti, diceva, da Pompei, da Ercolano, da Pesto, e rappresentanti un valore grandissimo; tante tele da farne la velatura d’un vascello, «tutte dei più famosi autori: Raffaello, Tiziano, Tintoretto»; ricolmò di quella roba il quartierino che aveva preso in affitto – perché la principessa non volle saperne di riammetterlo in casa – e cominciò a far commercio d’antichità. Giacomo era ammogliato da due anni, ed aveva già l’aspettato primogenito; Raimondo stava a Firenze con la moglie, dove era loro nata una bambina.
Neppure il duca Gaspare s’era trovato in casa, al tempo dei matrimoni; ma, benché da lontano, fu l’unico che approvasse l’opera della cognata, attirandosi naturalmente per quell’approvazione, e più per il motivo che gliela dettava, i fulmini di donna Ferdinanda e di don Blasco. Questa ragione era d’indole tutta politica. Il barone Palmi, padre di Matilde, liberale d’antica data, aveva preso alla rivoluzione del Quarantotto una parte così attiva che, dopo la restaurazione, colpito da una condanna capitale, s’era rifugiato a Malta, e senza specialissime protezioni e solenni impegni di non cominciar da capo, quell’esilio, invece di pochi mesi, sarebbe durato quanto la sua vita. Nondimeno, graziato ed ammonito, egli ricominciò a dirigere nel suo paese e in quasi tutta la Sicilia il movimento contro il regime borbonico. Ora queste sue opinioni politiche e questa sua autorità nell’ancor vivo partito liberale furono le ragioni per cui il duca vide bene il matrimonio della figliuola di lui con Raimondo.
Fino al Quarantotto, il duca, come tutti gli Uzeda, era stato borbonico per la pelle. Ma quantunque, come secondogenito e duca d’Oragua, avesse avuto qualcosa di più del magro piatto ed alcuni zii materni avessero contribuito ad impinguare il suo appannaggio, pure egli aveva un’invidia del primogenito e una smania d’arricchire e di farsi valere nel mondo più grande di quella dei fratelli, giacché la sua dotazione svegliava ma non appagava i suoi appetiti. Mentre era durato il fedecommesso, i cadetti avevano sopportato con discreta rassegnazione il loro stato miserabile, non potendo dar di cozzo contro la legge; ora che i primogeniti erano preferiti per un’idea che al soffio dei nuovi tempi pareva pregiudizio, l’invidia li rodeva. Per questo sentimento che aveva fatto di don Blasco un energumeno, e alimentato la cupidigia di don Eugenio, il duca aveva dato ascolto alle lusinghe dei rivoluzionari, ai quali premeva di trarre dalla loro un personaggio importante come il duca d’Oragua, secondogenito del principe di Francalanza. Egli non cessò per altro dal far la consueta corte all’Intendente, a fine di prepararsi un paracadute nel caso di possibili rovesci; associossi al Gabinetto di lettura, covo dei liberali, senza lasciare il Casino dei Nobili, quartier generale dei puri, e insomma si destreggiò in modo da navigar tra due acque. Al primo scoppio della rivoluzione, la paura fu più forte: dichiarando ai suoi nuovi amici che il moto era impreparato, inopportuno, destinato immancabilmente a fallire, mentre la gente s’armava e si batteva egli se la batté in campagna, e fece sapere ai capi del partito regio che aspettava la fine di quella «carnevalata». Però la «carnevalata» promise di durare; i soldati napolitani sgombrarono la Sicilia, e quantunque s’annunziasse ogni giorno il loro ritorno, non se n’ebbe più né nuova né vecchia, e il governo provvisorio si venne ordinando. Il duca, visto che non ne andava la pelle, tornò in città, porse orecchio alle lusinghe del partito trionfante che, per averlo dalla sua, gli prometteva tutto quel che desiderava. Egli stette ancora a vedere, tirò in lungo, consigliò prudenza, allegò il bene del paese, le insidie, i possibili pericoli, dando così un colpo al cerchio e un altro alla botte. Corto di vista e presuntuoso per giunta, proprio mentre le cose volgevano fatalmente al peggio, giudicò di potersi ormai gettare in braccio ai liberali. Stava già per abbruciare i suoi vascelli e già assaporava i primi frutti del favor popolare, quando un bel giorno il principe di Satriano sbarcò a Messina con dodicimila uomini per rimettere le cose al posto di prima. Il duca si stimò perduto, e la nuova, più grande tremarella gli fece commettere uno sproposito di cui più tardi ebbe a pentirsi: mentre la città s’apparecchiava alla resistenza, egli firmò con altri borbonici fedeli e liberali traditori una carta in cui s’invocava la pronta restaurazione del potere legittimo. Ai primi d’aprile, le compagnie della milizia siciliana che presidiavano Taormina sgombrarono all’apparire dei regi e ritornarono a Catania; il 7 Satriano entrò in città dopo un sanguinoso combattimento. Tutti gli Uzeda erano scappati alla Piana, il duca s’era barricato alla Pietra dell’Ovo perché era opinione generale che i napolitani si sarebbero presentati dalla parte opposta, cioé dalla via di Messina. Invece, essi spuntarono dalla strada del Bosco etneo, prendendo, dopo brevi zuffe, i posti della Ravanusa e della Barriera. Ora, giunto all’altezza della Pietra dell’Ovo, il generale borbonico entrò col suo stato maggiore nel podere degli Uzeda, dove il duca lo accolse come un padrone, come un salvatore, come un Dio, mentre i cannoni spazzavano la via Etnea, e le truppe regie, assalite alla Porta d’Aci dal disperato battaglione dei corsi, decimate a colpi di coltello, nell’ora triste del crepuscolo, da quel manipolo che si sentiva perduto, inferocivano e distruggevano fin all’ultimo quei mille uomini e sfogavano l’ira sulla inerme città… Amico di Satriano, protetto dalla firma posta a quell’atto di sottomissione che tra i liberali andò infamato col nome di Libro nero, protetto ancora più dal suo proprio nome, perché era impossibile che un Uzeda avesse potuto dire sul serio mettendosi coi rivoluzionari, il duca non solo non soffrì molestie di sorta nella reazione, ma fu anzi accarezzato. Invece, un sordo fermento si destò contro di lui nel partito dei vinti. Gli apponevano quella firma odiosa, ma più le accoglienze fatte a Satriano alla Pietra dell’Ovo. L’affare della firma era conosciuto da pochi, dai capi; la storia della Pietra dell’Ovo si diffuse tra i gregari e corse in mezzo al popolo; ciascuno v’aggiunse un po’ di frangia, arrivarono a narrare che mentre la città agonizzava, il duca guardava lo spettacolo col cannocchiale di Satriano; che all’entrata del conquistatore della città gli aveva cavalcato al fianco. Don Lorenzo Giulente, rimastogli amico, ebbe un bel difenderlo, smentire le esagerazioni, asserire che il duca, solo ed inerme, non poteva mandare indietro il generale seguito da un intero esercito: gli animi amareggiati dal disinganno chiedevano un capro espiatorio; e come Mieroslawski, il polacco comandante della polizia, era stato accusato di tradimento, così il rancore popolare si rovesciò sul duca, quantunque mille più di lui lo meritassero perché di lui più colpevoli. In fin dei conti, egli non aveva preso né gradi, né stipendi, né appalti dalla rivoluzione: era stato a vedere, aspettandone la riuscita; mentre tanti altri, dopo aver fatto gazzarra e il mangia-mangia, si buttavano ai piedi dell’Intendente e salutavano col cappello fino a terra nominando Sua Maestà Ferdinando ii «che Dio sempre feliciti!» Questo voleva dire il duca, in propria difesa; questo diceva Giulente; ma cantavano ai sordi, e il duca si vedeva segnato a dito, bollato col nome di traditore, insultato e fin minacciato da lettere anonime.